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Macbeth, Roman Polanski, 1972

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È un mondo barbaro, quello di Macbeth, suggellato dal naturalismo della messinscena di Polanski, tra fango, sporcizia, sangue e bestie. Un mondo magico, dove la superstizione e l’arcano trovano la loro voce (le tre streghe) e influenzano gli eventi e le decisioni dei personaggi. Un mondo e un tempo che sembrano dialogare anche con quello in cui il film è stato girato, i primi anni settanta, grazie alla musica di un gruppo di quel periodo ( Third Ear Band ), giovani attori dalle sembianze hippy (Finch, Annis), i soldi di Hugh Hefner di Playboy come produttore e la presenza di notevoli momenti allucinatori e psichedelici (la visione del pugnale, quella indotta dall’intruglio bevuto da Macbeth al sabba delle streghe, le apparizioni di Banquo sventrato) che ci fanno pensare alle droghe dell’epoca, lsd e magic mushrooms, in un trip andato veramente a male.  Roman Polanski si immerge totalmente in questa misteriosa dimensione, lasciandosi affascinare e sedurre dagli scenari naturali del...

Mickey 17, Bong Joon-ho, 2025

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Soluzioni salvifiche, valide vendette, occhio per occhio, incidente per incidente, tensioni esplosive risanate e sostenute da paradossi che riconfigurano una società che non riesce ad evolversi, rinchiusa e combattuta tra le solite esigenze: il potere, il sesso, la violenza. Il sospetto che un mondo migliore sia possibile rimane ma il modo in cui Bong Joon-ho si avvicina a questo dubbio sembra essersi invischiato nelle logiche occidentali, in una maniera di pensare che al di là di alcune trovate visive e narrative rimane comunque intrappolata nello stesso funzionamento di sempre. Si evidenziano dunque i confini della stupidità umana e di quello che caratterizza la nostra specie, compresa la paura della morte che sembrerebbe essere stata accantonata dall’invenzione di una stampante capace di ricreare il nostro corpo e la nostra mente donandoci così l’illusione dell’immortalità. O forse dell’illimitata ripetizione dei nostri sbagli. Nasce così l’idea degli expendable , uomini che vengono...

Parthenope, Paolo Sorrentino, 2024

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Ritorniamo sulla bellezza (vuota, epidermica, patinata) e quale orrore in tutto ciò (compresa la solita citazione iniziale di Céline), quale orrore nella giovinezza, nei corpi tonici e abbronzati, nei rallentamenti da rotocalco di azioni inutili, tese ad afferrare lo scorrere del tempo, quell’attimo già passato, quella vanità femminile così sfibrante.  L’orrore di un film che gira intorno a un corpo come fosse simbolo di una città, una psiche marina e mutevole che ne vorrebbe mostrare i molteplici aspetti, i tanti volti, le molte anime, l’orrore di essere spettatori, di stare a guardare senza neanche sapere più perché, giusto il nome di un regista che da qualche parte ci ricordavamo di aver apprezzato, mentre il senso di fastidio cresce con il fluire delle sequenze e striscia sottopelle e con esso la certezza che quello che una volta era stile ora non sia altro che reiterata maniera. Paesaggi, squarci, segreti, misteri, lacerazioni interiori, colpe, tutti frammenti di un mosaico ...

Repulsion, Roman Polanski, 1965

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Ambientato in una insolita Londra soleggiata e ripresa attraverso un memorabile uso del bianco e nero - Una città estranea allo sguardo del regista, che da poco ci si era trasferito, le cui strade servono da scenario per gli spostamenti della protagonista (Carole, interpretata da Catherine Deneuve) e dei pedinamenti di Polanski, che la insegue con una macchina a mano, standole addosso e riproponendo lo stesso stile quando le sequenze si sposteranno nell’appartamento che Carole condivide con la sorella e nel quale si ritroverà sola, una volta che quest’ultima sarà partita per una vacanza in Italia, proprio a Pisa, la cui torre pendente appare come un simbolo fallico perfetto. Ed è proprio l’universo maschile a respingere e ripugnare Carole, i suoi tentativi di contatto fisico e quelli di seduzione finiscono in una serie di fallimenti mentre cresce all’interno della donna un senso di disagio e repulsione.  Dopo una prima parte lenta e ripetitiva Polanski comincia a farci scivolare n...

Otto ore non sono un giorno, Rainer Werner Fassbinder, 1972

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  Ci pensi, a volte, quando torni a casa la sera che otto ore (di lavoro) non dovrebbero essere un giorno e che dovresti avere ancora il tempo e l’energia per fare altre cose, stare con gli amici o più semplicemente farti i cazzi tuoi. E Fassbinder ci porta nel suo mondo filmico, nella sua epoca, in quello che gli sta intorno, nelle dinamiche umane di una società di cui non vengono nascoste le problematiche e gli aspetti negativi, ai quali si cerca di trovare nuove soluzioni, insieme o da soli, in fabbrica come in famiglia, discutendo e litigando, se necessario. Prodotto televisivo suddiviso in cinque puntate, ciascuna dalla durata di un lungometraggio, Otto ore non sono un giorno appare quantomai alieno alle logiche produttive e ai temi attuali trattati dalla tv di oggi, da cui sembra essere stato bannato qualsiasi impegno politico e sociale, qualsiasi descrizione psicologica che possa essere destabilizzante e potenzialmente pericolosa per lo spettatore medio, rincoglionito da g...

Nosferatu, Robert Eggers, 2024

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Il Nosferatu di Robert Eggers sarà apprezzato maggiormente da chi non abbia mai visto e forse neanche conosca i suoi predecessori. Se non fosse un remake, ma una prima opera cinematografica ispirata al romanzo di Bram Stoker, il film di Eggers potrebbe catturare lo sguardo soprattuto dei giovani spettatori e trasportarlo in quel mondo arcaico di ombre e misteri dove si aggira lo spettro o quel che di umano resta del conte Orlok/Dracula. La regia di Eggers è elegante, piena di fascino, capace di costruire seducenti atmosfere che dovrebbero nascere dal buio di sensazioni sconosciute o di passioni la cui forza potrebbe far vacillare la ragione. Eppure per lo spettatore che nel suo cammino si fosse imbattuto nell’opera di Murnau, specchio di un cinema ormai scomparso e svanito o nella interpretazione di Coppola (più di quella di Herzog) che trasforma la storia del conte in un geniale e debordante melodramma, tanto per invenzioni visive quanto per scelte registiche, il lungometraggio di E...

The room next door, Pedro Almodòvar, 2024

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  Pedro Almodòvar si firma solo Almodòvar, nei titoli di testa, quasi a dirci che basterebbe questo piccolo gesto di vanità autoriale a ricordarci quello che troveremo in un suo film. E infatti gli elementi ci sono tutti: il melò, l’uso espressivo dei colori, gli universi femminili, la leggerezza con la quale riesce a trattare temi profondi. Forse c’è meno ironia e meno spirito dissacratorio, ma quello che conta sembra essere l’eleganza e l’essenzialità della regia, quasi interamente giocata sull’uso del primo piano, in cui il volto delle attrici protagoniste (Tilda Swinton e Julianne Moore) diventa strumento figurativo di scoperta psicologica ed emotiva delle loro vite e delle loro storie. C’è un quadro di Hopper nella casa dove le due donne si ritrovano nell’attesa che una di loro incontri la morte, una copia, certo, perché l’originale sarebbe impossibile da tenere in casa. Ma una copia così perfetta da sembrare vera. Ecco, anche The room next door è così, una copia impeccabile ...