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One battle after another, Paul Thomas Anderson, 2025

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Saranno gli impulsi sessuali, le erezioni, le ficheselvagge, a far detonare le istanze  radicali (e poi quelle reazionarie) che porteranno alle bombe, alle esplosioni, alle incursioni nei campi di prigionia degli immigrati, con la folle idea che il mondo possa cambiare e che l’azione violenta (o il cazzo di qualche uomo) sia la leva giusta sulla quale spingere per farlo. Finito l’orgasmo bombarolo, prosciugata l’estasi del gesto anarchico, le maree dell’insurrezione si ritirano nei recessi delle proprie sconfitte, nei programmi di protezione, nelle spiate sui vecchi compagni, nelle fughe, nel paranoico limbo dell’erba, nelle false identità. Sbiadito l’ardore giovanile, ci si dimentica di chi si è stati, non si ricordano più i vecchi slogan o si ripetono in una pantomima del passato, le frasi in codice sono annegate nell’alcol o nel vuoto mnemonico lasciato dal passaggio di varie sostanze psicotrope e quello che Paul Thomas Anderson sembra mettere in scena, rielaborando liberamente...

Taxi Driver, Martin Scorsese, 1976

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È la musica di Bernard Hermann che si amalgama con le luci rossastre, quasi infernali di una città attraversata di notte, a bordo di un taxi, Travis Bickle al volante, perché non riesce a dormire, quelle stesse luci riflesse nei suoi occhi, nel suo sguardo, tutto quello che gli passa davanti, una fauna umana in movimento, spacciatori, tossici, puttane, uomini d’affari, politici, papponi - Travis nella sua stanza, le pagine del suo diario, i pensieri ossessivi, alienati, sconnessi - Similitudini con Pickpocket di Robert Bresson, senza la stessa irraggiungibile stilizzazione, Travis che si esercita con le armi davanti allo specchio o costruisce i suoi dispositivi di estrazione veloce come Michel (Martin LaSalle) quando provava i gesti per rubare - You talking to me? - Travis che va nei cinema porno per curare la sua insonnia, che si innamora di un angelo illusorio anche se il primo a vedere Betsy è lo stesso Scorsese, seduto fuori dall’ufficio elettorale, che la segue con lo sguardo me...

Once upon a time in... Hollywood, Quentin Tarantino, 2019

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  In un luogo come Hollywood non dovremmo cercare di fare distinzioni fra quanto appartiene al regno del reale e quanto appartiene a quello della finzione. Tutto può essere riscritto e rielaborato, tutto può essere trasformato in immagini. In questa magnifica perdita di ciò che è stato vero e nella sua trasformazione in una dimensione puramente cinematografica risiede la grandezza delle opere di Tarantino, che costruisce continuamente mondi diegetici paralleli, sequenze di vita in celluloide che trascendono lo schermo per radicarsi nello sguardo dello spettatore. Sappiamo quale è il rischio, ammettere che il doppio cinematografico sia migliore delle poche verità che contiene, spostarci anche noi nel territorio della fiction significa amare l’arte nel suo potere di trasfigurare l’ordine delle cose e degli eventi. I nglorious Basterds , Django Unchained e The Hateful Eigh t hanno visto Quentin Tarantino impegnato a riscrivere a suo modo alcune parti della Storia americana (ed europe...

The Trip, Roger Corman, 1967

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Colorato e incasinatissimo flashback degli anni sessanta, quando ancora si sperimentava con l’acido lisergico o se ne cercavano utilizzi nei vari campi delle esperienze umane. Corman, insieme a un manipolo di giovani attori, Jack Nicholson alla scrittura, Fonda, Hopper e Dern in scena, sfrutta la notorietà dell’LSD (all’epoca) e ci costruisce intorno una sgangherata pellicola (che sembra sperimentale ma invece ha finalità molto commerciali), che ha il merito di farci ricordare ciò che la sostanza può offrire in termini di applicazione dei suoi effetti al linguaggio cinematografico. Oltre a quelli visivi, ai mandala, alle luci si lavora anche sul montaggio, con tagli veloci e improvvisi che collegano fra loro diverse situazioni, pensieri, allucinazioni, le immagini abbandonano la logica razionale per perdersi nelle possibilità della poesia o del simbolismo, in una confusione percettiva che può volgere al caos totale quanto a una nuova forma espressiva. Come dicevamo si tentavano nuove s...

Permanent Vacation, Jim Jarmush, 1980

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Quella del drifter è una vita affascinante, un approccio erratico all’esistenza, che Jarmush, nella sua prima opera, trasforma anche in uno stile filmico personale e ipnotico. Serie di brevi sequenze si sommano, bizzarri incontri e strambi personaggi si alternano nei vagabondaggi del giovane Aloysious Parker, in una New York sporca e bombardata da aerei invisibili, tra vicoli, stanze squallide e spoglie, polverose sale cinematografiche e ricoveri per malati di mente. È un’umanità sul limite di un baratro psichico quella mostrata da Jarmush eppure piena di vitalità, fuori da ogni schema, in una deriva che solo lo spostarsi da un luogo a un altro, quando le cose e le situazioni iniziano a ripetersi, può permetterci. È simile ad essere un turista in una vacanza permanente, come ci suggerisce il titolo. Il non avere appigli e sicurezze riduce le nostre ambizioni e il solo vivere e il riempire il tempo con quello che più ci piace dà il senso del nostro scorrere e delle nostre azioni. Un na...

Chappaqua, Conrad Rooks, 1966

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Diario per immagini allucinate di un tentativo di disintossicarsi dall’alcol. Attraverso un detour psichedelico fra effetti e astinenze, Conrad Rooks, ci propone di partecipare a un viaggio solipsistico all’interno della propria pische, delle esperienze fatte, di ciò che resta, di ciò che va in frantumi dopo e durante l’assunzione di diverse droghe.  La disintegrazione del racconto, del linguaggio filmico, mina la comprensione logica ma è proprio oltre essa che si vuole andare, spostandosi su altri piani percettivi, di coscienza e di apprendimento. Un bianco e nero dai contrasti violenti, un monocromo a tratti asfissiante e angosciante, poi le esplosioni dei colori attraverso sovrimpressioni e dissolvenze, a ricercare le sensazioni di un trip acido, mentre le voci e i suoni si rincorrono e arriva improvvisa e ipnotica la musica di Ravi Shankar a sviluppare le nuove possibilità di una trama a cui sembra fuorviante dare una struttura omologata e fruibile. Cinema sperimentale, che sab...

The Culpepper Cattle Co., Dick Richards, 1972

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Viaggio di formazione verso la disillusione totale, in una rilettura antiepica e antieroica del western (primi anni settanta, revisionismo del genere, iperrealismo), in cui i personaggi, spogliati di qualsiasi aura mitica, vengono ripresi nella realtà dell’epoca (1866, con qualche anacronismo), tra bestiame, sudore, sangue e sporcizia, circondati da un ambiente selvaggio, durante le traversate con le mandrie e da una violenza insita nell’esistenza stessa, vivere e morire fanno porte dell’ordine quotidiano delle cose e la loro scelta è decisa solo da chi riesce a sparare per primo. La figura del cowboy è quindi quella di un semplice lavoratore, sottopagato, alle prese con furti e rapine, da cui deve salvaguardarsi e difendersi, a volte uccidendo (senza scrupoli morali), altre cercando di riprendersi con la forza ciò che gli è stato sottratto. Una pellicola polverosa, accompagnata da una coinvolgente musica folk/country , con una regia sicura e curata (Dick Richards), attenta agli indi...