The House That Jack Built, Lars Von Trier, 2018
Architetture della mente, del crimine, dell’arte, del cinema. Una serie di omicidi e poi connessioni, riflessioni filosofiche e turbe psicologiche attraverso cui l’opera di Lars Von Trier prende forma (libera, personale, unica), sottomettendo la narrazione alle esigenze del pensiero, della speculazione estetica, creando cortocircuiti etici e disintegrando ogni possibile moralismo, visto che l’autore dei ragionamenti è un sadico serial killer e le sue vittime, diventano, dalla sua prospettiva, opere d’arte.
In un dialogo over con il suo interlocutore Vergie, che finirà per spostare la storia, in una deriva dantesca e infernale, Jack (interpretato da Matt Dillon), discute delle teorie e dei progetti che gli passano per la testa, spostando così l’attenzione dello spettatore in quei territori difficili da esplorare o penetrare, in cui l’animo umano sembra perdere le proprie protezioni e affondare negli abissi della psiche e dell’istinto animale.
L’intero film è costellato di citazioni, riferimenti letterari, pittorici, architettonici e religiosi. Blake, Speeer, Virgilio, Dante, Dylan. E su queste fondamenta si costruirà la serie di atti violenti compiuti da Jack, che sembrano spaziare nelle fantasie sanguinarie di un alter ego scientifico di Patrick Bateman, tanto per ferocia quanto per immaginazione omicida. A rendere il flusso delle immagini ancora più inafferrabile, c’è l’uso nero e dissacrante dell’ironia, nella quale Von Trier trova un altro tassello di un’umanità perduta o spogliata di qualsiasi empatia e capacità di amare. Una serie di incidenti più un epilogo conclusivo costituiscono la struttura del film, in cui i dialoghi, quando si spostano in zone più riflessive e potremmo dire didattiche vengono supportati dalla presenza di inserti visivi che spiegano le idee evidenziate da Jack. Il regista danese si concentra poi sull’uso della macchina a mano per filmare con il suo classico stile cinematografico. Celle frigorifere colme di scatoloni di pizza e cadaveri, battute di caccia con prede infantili, metodi di fucilazione nazista, proiettili full metal jacket, velleità fotografiche, macabre composizioni dell’inquadratura, esplosioni musicali sulle note di Fame di David Bowie, strangolamenti, amputazioni, grottesche e amatoriali opere di tassidermia.
Lars Von Trier ricrea tutto il suo cinema negli spazi e nei territori filmici che gli sono più congeniali, potrebbe smarrirsi lungo il cammino eppure, un’ennesima volta, il viaggio nell’oscurità ci riporta alla luce. O al suo opposto. Tanto che non si possa più dire dove finisca l’uno e inizi l’altra.
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