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Visualizzazione dei post da gennaio, 2022

La terrazza, Ettore Scola, 1980

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Lo scrivere. Anzi, il nonscrivere. Quello di Enrico (Jean-Louis Trintignant), in mancanza di idee, bloccato davanti al suo nuovo strumento di lavoro, una sigaretta dopo l’altra, la frustrazione e l’ansia, Emanuela (Milena Vukotic) gli porta un caffè, lui si versa lo zucchero sulle lenti degli occhiali, le telefonate di un produttore (Amedeo, Ugo Tognazzi), Trintignant è in un bagno di sudore, alla cornetta vengono fuori spunti per un film come fossero confessioni di uno psicopatico, Tognazzi se la ride, in piscina, su una poltrona gonfiabile, ascoltando le parole di Enrico, ridere, bisogna ridere, immaginandosi Sordi, su uno yacht, che taglia un cocomero enorme. Lo scrivere. Anzi, il battere le dita sui tasti. Quello che fa Luigi (Marcello Mastroianni), giornalista, alla scrivania, in una redazione. Lo scrivere. E il parlare, prima di farlo. Tizzo (Stefano Satta Flores), che pare indemoniato mentre sbraita di cinema attorno a un tavolino, in mutande e canotta.  E un gruppo di uomini, o

La ley del deseo, Pedro Almodovar, 1987

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  Si comincia con atti di masturbazione maschile solitaria, su un letto, davanti a uno specchio, le labbra che si toccano, una voce fuori campo che ti dice cosa fare se non bastasse quella della tua immaginazione (vi siete mai masturbati davanti al vostro riflesso?) - Poi doppiatori che fremono nella sala buia, poi una festa, una première, Eusebio Poncela (Pablo) tira strisce di coca in un cesso, forse lo stesso in cui Banderas (Antonio) si è appena sparato una sega, mormorando follame, follame … E gli appartamenti, gli interni, i colori, i libri, i dischi, Pablo con una cerveza in mano, i corpi abbracciati prima che la notte sprofondi fra le labbra di una notte impudica. Scrivere, scrivere, scrivere - Le dita sui tasti che battono senza tregua. Carmen Maura (Tina) entra in chiesa con la figlia, intonando canti sacri davanti a un prete che si ricorda di lei, che prima era un lui. Altari kitch dove pregare la vergine e conchiglie (vagine di pietra) da cui si ascolta il mare. La vita ne

Viaggio in Italia, Roberto Rossellini, 1954

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Viaggio in Italia comincia come un road movie atipico, con Ingrid Bergman (Katheryn) al volante di una macchina, quasi a suggerire che sia lei, una donna, a condurre la vita di coppia, poi è il marito che si mette alla guida, per noia, questa è solo la prima delle tante allusioni che andranno a superare la letterarietà di immagini e parole per farci immergere nella psiche dei personaggi fino a svelarne dissidi interiori e conflitti. E’ quasi completamente costruito sul non detto, questo film, sul simbolico, sull’assenza di qualcosa che i due coniugi non riescono ad ammettere, sul possibile fallimento di un rapporto, che dopo quasi otto anni di matrimonio, potrebbe giungere alla sua conclusione. La mancanza di contatti fisici e quasi sicuramente di una intimità sessuale è il centro di una insoddisfazione, soprattutto per Katheryn, che i due cercano di aggirare e negare senza riuscirci, lei con un idealismo sentimentale e lui con un pungente sarcasmo. I loro corpi sono perennemente co

C'eravamo tanto amati, Ettore Scola, 1974

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Marciavamo con l’anima in spalla Nelle tenebre lassù E nel bianco e nero dei boschi, degli alberi spogli e della neve d’inverno, in montagna, si incontrano Gianni, Antonio e Nicola, a combattere contro il nemico nazista, diventando amici, per poi separarsi, finita la guerra e ritrovarsi di nuovo nel corso degli anni. Un tempo personale che si intreccia con quello della storia del nostro Paese: la Resistenza, la Repubblica, il dopoguerra, fino ad arrivare agli anni settanta. E il cinema, sempre e comunque. Quello del neorealismo, di De Sica, poi Antonioni e la Nouvelle Vague, il geniale omaggio ad Ejzenstein sulla scalinata di Trinità dei Monti e Fellini, nel mezzo, mentre gira una scena de La Dolce Vita . Il teatro, anche. Con Strange Interlude di Eugene O’Neill che innesca una delle molteplici trovate narrative del film, già presente nel drama originale, quella del soliloquio dei personaggi, con una luce che li illumina, rivelandone così i pensieri mentre chi gli sta intorno si

Gone girl, David Fincher, 2014

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  Disturbante, sottopelle. Immagini fisse urbane, titoli di apertura, particolari, il volto di lei, i suoi occhi, una mano sui capelli, una serie di domande. David Fincher ci scaraventa in un incubo psicologico, una ragnatela di relazioni malate e psicotiche, tesse i fili di questo caustico dramma lentamente - la staticità quasi bovina del volto di Ben Affleck, la pesantezza dei suoi movimenti, il suo corpo ingombrante, la vittima e il carnefice si scambiano i ruoli, cadendo verso l’abisso, come in ogni relazione sadomasochistica, il corpo di lei, attraente e magnetico, le promesse del primo incontro, la magia di un bacio in strada, la quotidianità da affrontare, la sfida di un matrimonio, le crisi, il buio.  Fincher distrugge l’illusione dell’unione tra uomo e donna, che diventa un gioco crudele e feroce, costruito sulle menzogne, le paure, il sangue. Ingabbiati nelle immagini, sprofondiamo anche noi nella disfatta, immersi in un’atmosfera livida e carica di malessere, trasportati da

Zodiac, David Fincher, 2007

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Zodiac è la dettagliata e labirintica ricerca di un assassino. Attraverso incartamenti e indagini, ricostruzioni e intuizioni. Il regista cerca di svelare, a molti anni di distanza, l’identità di questo serial killer, un uomo che terrorizzò (soprattutto dal punto di vista mediatico) San Francisco in piena Love Generation. La prima parte del film è frammentaria e fluida allo stesso tempo. Fincher presenta i personaggi, ci mostra gli omicidi in maniera inusuale, costruisce una tensione disturbante, facendo colpire l’assassino nel momento più inaspettato. Atmosfere cupe e inquietanti. La violenza e il sangue non sono elementi primari ma dettagli visivi, quello che conta è l’incastro degli indizi, il loro amalgamarsi fino a formare una possibile verità. E la struttura del film inizia così ad assomigliare sempre di più a quella di un’inchiesta vera e propria, il regista non usa le informazioni che possiede come un puzzle da fare ricostruire allo spettatore, ma come un enigma che devono riso

Martìn (Hache), Adolfo Aristarain, 1997

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Si parla e tanto e stranamente quasi nessuna parola è fuori luogo, perché ci sono significati profondi, dentro e fuori di esse, c’è un senso che viene dall’esperienza e dalla vita stessa e allora i dialoghi diventano spazi verbali per autentiche interazioni umane, confessioni e confronti e il dolore è lì, sempre presente, sottopelle, nelle vene e poi gli attimi di improvvisa poesia, le verità nascoste, l’aprirsi e il dischiudersi dei mondi interiori, quelli di quattro personaggi, Martìn, suo figlio Hache, Dante e Alicia, che si incontrano, si raccontano, si attraggono e respingono in uno scambio continuo si pensieri, sensazioni, rabbie, introspezioni, speranze e fallimenti che possiedono una rara sincerità, si va fino in fondo, dentro sé stessi anche se le conseguenze di queste discese possono essere tragiche e devastanti e poi le droghe, come parte dell’esistenza, erba, coca, eroina, alcol, tabacco, se ne conoscono gli effetti, si assumono senza troppi e stupidi giudizi morali, se ne

Arrebato, Ivan Zulueta, 1980

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  Polveri e pellicole. Film da girare e strisce da tirare. Sala di montaggio, vampiri su uno schermo, denti finti, canini appuntiti. Ci sono polveri e polveri e una è la migliore di tutte. Caballo . L’eroina. E allora ecco tornare vecchie dipendenze. E amanti da cui si era tentato di fuggire. Lo stesso abbraccio. Lo stesso appiglio. Corpi nudi. Frementi per un orgasmo. Tremanti per una crisi d’astinenza. Corpi sdraiati in un letto, sudati. I fotogrammi diluiti nel tempo, a documentare il freddo interiore. La necessità. Il bisogno. Voci che raccontano, nella mente, una storia che attende di essere ascoltata. Suoni che si arrampicano lungo la colonna vertebrale, graffiando, stridendo, creando contrasti percettivi con il montaggio che taglia, come fosse una lametta su un grammo di coca, le immagini, per scomporre i minuti in segmenti di agonia, euforia, disprezzo, desiderio - Cinema assuefatto, cinema in cerca di una forma di assuefazione, artistica, vitale, drammatica, erotica, Cecilia R

La passion de Jeanne d'Arc, Carl Theodor Dreyer, 1928

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C’è una tensione costante (emotiva, psicologica, spirituale) che unisce tutte le immagini di questa pellicola (vista nella sua versione originale restaurata nel 1985, insonorizzata), un legame alchemico di inaudita potenza e forza espressiva di cui il montaggio cinematografico è solo il mezzo, in quanto la vera unità avviene all’interno di chi guarda, con l’anima di ogni inquadratura che si riversa nel nostro cuore, attraverso un ritmo visivo struggente, le serie di primi e primissimi piani, come battute di una sinfonia delle passioni costruita sulle linee dei volti maschili, incombenti, ghignanti, malefici, che si alternano a quello estatico di Reneé Falconetti, con i suoi occhi, le sue lacrime, come diamanti di dolore e beatitudine. Questo di Dreyer è un film trascendentale, esoterico, che parte dalla materia umana e dalla sua grezza natura per innalzarsi verso la pura sostanza, quella del cinema in sé stesso, la cui forma racchiude e imprigiona le immagini affinché se ne possa cogl

Un prophéte, Jacques Audiard, 2009

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  Non sappiamo perché Malick El Djebena vada in galera. Vediamo il suo volto tumefatto, il viaggio verso la prigione, gli ultimi squarci di libertà che filtrano tra le sbarre del cellulare, i rituali di ingresso, la nuova vita che lo aspetta. L’educazione di Malick, la sua formazione, avviene tra le mura del carcere. Qui il ragazzo impara a leggere e a scrivere, a parlare corso, ad uccidere, a sapersi sottomettere, ad organizzarsi e a comandare. Malick ritrova le sue radici e la sua identità culturale, seguendo un percorso di crescita violento e crudele, dove nel microcosmo della prigione diventano ancora più evidenti i meccanismi bestiali delle relazione umane private della libertà. In questo luogo si sviluppano le sottotrame del genere carcerario, mentre il respiro e l’anima oscura del noir si incarnano nella figura di Cesàr Luciani, nel suo passato, nell’illusorietà del suo presente. Intorno a Malick si muovono e vivono gruppi di uomini ingabbiati, ancor più che in una cella, in p