La passion de Jeanne d'Arc, Carl Theodor Dreyer, 1928


C’è una tensione costante (emotiva, psicologica, spirituale) che unisce tutte le immagini di questa pellicola (vista nella sua versione originale restaurata nel 1985, insonorizzata), un legame alchemico di inaudita potenza e forza espressiva di cui il montaggio cinematografico è solo il mezzo, in quanto la vera unità avviene all’interno di chi guarda, con l’anima di ogni inquadratura che si riversa nel nostro cuore, attraverso un ritmo visivo struggente, le serie di primi e primissimi piani, come battute di una sinfonia delle passioni costruita sulle linee dei volti maschili, incombenti, ghignanti, malefici, che si alternano a quello estatico di Reneé Falconetti, con i suoi occhi, le sue lacrime, come diamanti di dolore e beatitudine.

Questo di Dreyer è un film trascendentale, esoterico, che parte dalla materia umana e dalla sua grezza natura per innalzarsi verso la pura sostanza, quella del cinema in sé stesso, la cui forma racchiude e imprigiona le immagini affinché se ne possa cogliere l’essenza, con l’uso di un linguaggio filmico ormai quasi dimenticato, che sapeva oltrepassare i limiti della narrazione per diventare esperienza di qualcosa di magico e misterioso.

Una donna sola contro il patriarcato, Jean D’Arc, umiliata, derisa, insultata, interrogata e processata nei perimetri invisibili e per questo ancora più angoscianti perché puramente mentali di ambienti spogli di cui non sappiamo nulla, in una stilizzazione scenografica di cui ci sentiamo anche noi prigionieri, sui confini dell’espressionismo tedesco, dove sono i movimenti di macchina veloci gli unici a darci una parvenza di spazio tridimensionale, dobbiamo sempre tornare all’alfabeto del volto, alla sua mappatura, al suo farsi luogo della tragedia, in una iconografia di posizioni che ci riporta alle rappresentazioni sacre dell’arte e a loro farsi sequenze dirompenti.

Altri luoghi, brutali nella loro claustrofobica indeterminatezza, come la stanza delle torture, i particolari degli strumenti, una ruota per il supplizio che gira, sempre più veloce, il collasso di Jean, il suo svenimento, poi la pietà degli uomini per questa giovane ragazza, che sorge, si posa, passa e svanisce dai loro cuori e ancora, letture trasversali, il travestitismo, il cambio di identità sessuale, Jean rinuncia alla sua femminilità in nome di un Dio che le brucia dentro e che la farà finire sul rogo e Antonin Artaud fra le inquadrature ancor prima del suo teatro delle crudeltà che proprio da questa opera di Dreyer verrà influenzato, che ricerca una confessione che significherebbe l’abiura anche delle proprie visioni, di quelle a venire, quando nell’arte del cinema e del teatro si manifestavano folli demiurghi, che vi costruivano all’interno i loro mondi, prima di impazzire e sconvolgerci per sempre con le loro eresie.


 

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