Logan, James Mangold, 2017

 





You should take a moment and feel it – dice Xavier a Logan, sdraiato su un letto, in un momento d’imprevedibile quiete, cosa significhi essere parte di una famiglia, cosa significhi essere protetti e amati. La leggenda ha ormai abbandonato questi due personaggi della Marvel e James Mangold li libera dai loro costumi per renderli finalmente umani, due vite alla deriva, Xavier invecchiato e alle prese con una forma di demenza incurabile e Logan, alcolizzato e disilluso, al volante di una limousine per le  futili strade di  città piene di nulla.

Il regista ci porta all’interno di queste esistenze borderline, di questi dropouts come ce ne sono a migliaia nelle crepe di un American Dream in frantumi, attraversiamo con loro i deserti dell’anima, squarciati da artigli di rabbia ancora micidiali, dove le ferite del passato rimangono aperte e sanguinano lente ricordi e fallimenti.

Le multinazionali della guerra sperimentano progetti omicidi su nuove generazioni di cavie, in laboratori clandestini nei sotterranei di cliniche messicane in cui l’infanzia viene distrutta in nome del progresso militare. Una fanciulla in fuga, silenziosa e selvaggia, l’incontro con Xavier e Logan, l’inizio di un percorso sanguinario e nichilista verso la ricerca di un eden perduto. E così questo film si tinge dei toni crepuscolari di una tristezza esistenziale e tangibile, di un dolore concreto, nei corpi, negli sguardi, nelle parole e nei volti, nel tratteggiare un rapporto impossibile tra un padre e una figlia che non potranno mai essere tali, nel dirigersi verso quel luogo di sottile speranza che forse non è mai esistito. In cui incontrarsi di nuovo o  smarrirsi per sempre.


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