La ley del deseo, Pedro Almodovar, 1987

 


Si comincia con atti di masturbazione maschile solitaria, su un letto, davanti a uno specchio, le labbra che si toccano, una voce fuori campo che ti dice cosa fare se non bastasse quella della tua immaginazione (vi siete mai masturbati davanti al vostro riflesso?) - Poi doppiatori che fremono nella sala buia, poi una festa, una première, Eusebio Poncela (Pablo) tira strisce di coca in un cesso, forse lo stesso in cui Banderas (Antonio) si è appena sparato una sega, mormorando follame, follame

E gli appartamenti, gli interni, i colori, i libri, i dischi, Pablo con una cerveza in mano, i corpi abbracciati prima che la notte sprofondi fra le labbra di una notte impudica.

Scrivere, scrivere, scrivere - Le dita sui tasti che battono senza tregua.

Carmen Maura (Tina) entra in chiesa con la figlia, intonando canti sacri davanti a un prete che si ricorda di lei, che prima era un lui.

Altari kitch dove pregare la vergine e conchiglie (vagine di pietra) da cui si ascolta il mare.

La vita nei bar, per le strade, la gelosia di una passione, i segreti di una lettera, la finzione di un palco, un getto d’acqua sul corpo di una donna fremente, i giorni scomparsi fra le voci e rumori di una città insonne.

Camice sgargianti come doni di un desiderio pulsante.

Guarda che luna, guarda che mare - un faro, una scogliera, un incontro, una bottiglia di whisky, l’amore, la violenza, il riflusso delle onde.

Rosso.

Il sangue, un telefono, gli occhiali da sole, una macchina.

Un incidente.

Perdita della memoria e corse in ospedale e il ticchettio dei tacchi sul pavimento.

E’ tutto, cristo, il melodramma è tutto. Il centro palpitante, il cuore del cinema di Almodovar, eccessivo, sanguinante, loco, totale. Dove la le legge del desiderio è l’unica, la sola, da seguire. Da apprendere. Da trasformare in sgargiante (a)moralità. Que coño!

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