Chappaqua, Conrad Rooks, 1966



Diario per immagini allucinate di un tentativo di disintossicarsi dall’alcol. Attraverso un detour psichedelico fra effetti e astinenze, Conrad Rooks, ci propone di partecipare a un viaggio solipsistico all’interno della propria pische, delle esperienze fatte, di ciò che resta, di ciò che va in frantumi dopo e durante l’assunzione di diverse droghe. 

La disintegrazione del racconto, del linguaggio filmico, mina la comprensione logica ma è proprio oltre essa che si vuole andare, spostandosi su altri piani percettivi, di coscienza e di apprendimento. Un bianco e nero dai contrasti violenti, un monocromo a tratti asfissiante e angosciante, poi le esplosioni dei colori attraverso sovrimpressioni e dissolvenze, a ricercare le sensazioni di un trip acido, mentre le voci e i suoni si rincorrono e arriva improvvisa e ipnotica la musica di Ravi Shankar a sviluppare le nuove possibilità di una trama a cui sembra fuorviante dare una struttura omologata e fruibile. Cinema sperimentale, che sabota le sicurezze dello spettatore, che lo obbliga ad un confronto con tematiche e situazioni ignote (a meno che le sostanze, in un certo modo e in un certo tempo, non siano entrate nella vostre vite), cinema anche come specchio deformato di un periodo di estrema fertilità artistica e intellettuale, gli anni sessanta, con fugaci apparizioni di esponenti della Beat Generation: Ginsberg, Orlowski, Burroughs. 

Se quasi ogni sostanza viene descritta nella sua pericolosità, una potenziale arma per la propria autodistruzione o per un circolo vizioso di dipendenza da cui non c’è uscita, al peyote, alle cerimonie in cui si prende, appare riservata una posizione differente, luminosa, in cui il termine medicina può trovare spazio e senso, per quelle malattie dell’anima, del cuore, della mente da cui ogni dipendenza, alla fine, nasce e ritorna. 

Anche quella del peyote però è stata per il protagonista un’esperienza tormentata e la spaventosa visione dalla quale cerca di liberarsi attraverso tentativi più tradizionali di cura, a cui si sottopone in una clinica in Svizzera, lo faranno ripiombare nel suo circolo pericoloso di abitudini tossiche, una ruota, un meccanismo perverso  attraverso il quale scivolare fra le strade di una città, nelle sue vie assolate oppure sul ghiaccio di una crisi d’astinenza da oppiacei, l’incubo più spettrale di tutti, con Burroughs, in vesti quasi talari, a servire quella dose di eroina che appare come l’unica via verso la salvezza. Nella realtà, invece, la cura del sonno che fece nella clinica svizzera funzionò e a quanto sembra, dopo tale trattamento, il regista non ricadde più nell’uso e abuso di sostanze.

Conrad Rooks, avendone i mezzi economici e anche le capacità artistiche, si arrischia in un territorio inesplorato, ancora vergine, in cui dare nuove prospettive alle cose, alle persone, agli eventi, una dimensione simbolica, onirica, surreale dove è il caos la forza creatrice e in cui si devastano certezze e consuetudini, sociali quanto filmiche. Un luogo dal quale però c’è il rischio di non saper tornare indietro e senza neanche accorgersene, perdercisi per sempre.

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