Escape from Alcatraz, Don Siegel, 1979


 



Se in Dirty Harry Don Siegel metteva in scena il fallimento della polizia come organo rappresentante della legge in Escape from Alcatraz è la sconfitta della prigione come istituzione ad essere raccontata, attraverso l’ingegnosa fuga di Frank Morris e soci. I due finali sembrano essere speculari, nel primo Callahan gettava nel mare il proprio distintivo, nel secondo il direttore di Alcatraz buttava un fiore, simbolo di libertà. In entrambi i casi i rappresentanti della Giustizia avevano fallito nei loro ruoli.

Si passa così dagli esterni aperti e solari di San Francisco a quelli chiusi, notturni e claustrofobici della prigione di Alcatraz. Frank Morris arriva con il buio, sotto la pioggia, in questo incubo di roccia e cemento. Buona parte del film mostra le dinamiche della vita all’interno del carcere, delineando in maniera stilizzata alcuni personaggi, che diverranno poi archetipi del cinema carcerario. Don Siegel disegna rigide geometrie visive per poi annullarle con riprese instabili, specialmente durante la fuga, tutta la pellicola è intrisa di un realismo sporco, di una violenza psicologica più che fisica, di una speranza che è il cervello a costruire, a scavare nell’animo, in un gioco di scacchi in cui non è il più forte, ma il più intelligente a vincere.

All’inizio degli anni settanta Clint Eastwood è stato Herry Callahan, alla fine del decennio Frank Morris, la stessa freddezza, la stessa energia trattenuta e trasformata poi in azione. I due protagonisti si trovano agli estremi opposti della società americana ma sembrano condividere uno stesso codice morale, quello di un’etica personale in cui l’individuo si erge al di sopra del sistema per non essere schiacciato dalle sue regole, giuste o sbagliate che siano.

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