Cosmopolis, David Cronenberg, 2012

 


Il topo sarà la nuova unità monetaria mondiale mentre lo yuan continua a salire e Eric Parker sta perdendo milioni di dollari, fra flussi di informazioni da (in)seguire, come fossero gli elementi alfanumerici di una matrice capace di creare un’altra realtà possibile, quella del cybercapitale e delle sue visioni, in cui ogni fenomeno dovrebbe essere riconducibile al denaro ma non è così, si sono sviluppate delle zone d’ombra, dei segmenti che fuggono da ogni prevedibilità, schegge impazzite, le potremmo chiamare - Uno spettro si aggira per il mondo, quello del capitalismo - L’anarchia afferma che un atto distruttivo è un atto creativo - E intanto si scivola nel ventre amniotico di una iperaccessoriata limousine, insonorizzata, perché l’esterno è solo white noise. Eric Parker vuole darsi una sistemata ai capelli e deve raggiungere il suo barbiere dall’altra parte della città, intanto, nel lento tragitto, diversi personaggi entrano nella sua limo per incontrarlo, lui fa sesso, odora di sesso, un dottore gli controlla la prostata, ha casuali randezvous con la moglie, quasi una sconosciuta, si parlano, si prosegue. Il linguaggio è rarefatto, quasi alchemico, rimanda sempre ad altro, come se i significati fossero altrove, al di là della semantica, si discute e si prevede, giovani e giovanissimi sciamani digitali  prefigurano un futuro che sembra essere adesso anche se non lo è, la parcellizzazione del tempo come residuo della rivoluzione industriale, ore-secondi-minuti che sono solo un altro modo di guadagnare-perdere denaro, odore di sesso, codice rosso, massima allerta. Asimmetrie. Perché è poi nell’imprevisto la fine dell’impero, nell’imparare a leggere i dati secondo un alfabeto di segni che la natura crea e insegna, fuori dall’omologazione della produzione di massa anche se oltre i suoi confini tutto appare confuso, sul bordo dell’apocalisse. Pistole automatiche a controllo vocale, un faccia a faccia dalla tinte bibliche nella tana di un penitente del lavoro subordinato, il funerale di un rapper con dervisci che gli volteggiano intorno. Aleggiano presenze mistiche in questa metropoli, santità urbane, impersonificazioni del caos che neanche la morte con il suo tocco potrebbe spiegare. Cercheremo una salvezza al di là della quale ci sarà un mondo da cui per un’ennesima volta saremo costretti a fuggire. I parcheggi sotterranei di limousine, l’ultima scena di Holy Motors sembra essere una risposta a uno dei quesiti di Mr. Parker. Don De Lillo ci scaraventa in un labirinto di pensieri insinuanti attraverso una logica che fa del postmoderno una cifra stilistica della narrazione e Cronenberg ci fa accomodare in uno spazio filmico claustrofobico che rasenta l’algoritmo trascendentale di un’angoscia terrena, astratta, tecnologica, ipnotica e costante.


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