Io capitano, Matteo Garrone, 2023

 


Il viaggio di Seydou e Moussa, dal Senegal all’Italia, è simile a quello di altre migliaia di migranti che hanno cercato di raggiungere il nostro Paese. Per i due giovani ragazzi, però, segna anche il passaggio, forse ancora prematuro, ad un’altra fase della vita, quella in cui si diventa adulti. E allora il loro cammino si ammanta di altri significati e il loro percorso diventa un viaggio iniziatico. Non a caso si manifestano fra le immagini alcuni momenti fantastici, da realismo magico, il vecchio sciamano a cui i due fanno visita, il volo del corpo di una donna morente o quello di un essere sovrannaturale che li possa riportare a casa dai loro cari. 

L’immaginazione, il desiderio di scoperta sono ciò che spinge i due ragazzi a partire, perché la vita è ancora un mistero e il suo dolore e la sua sofferenza solo delle ombre ancora sfuocate. E’ poi nel vedere di cosa siano fatti gli altri uomini la scoperta che ci permette di capire chi siamo e chi saremo in questo mondo. E Seydou, a discapito di tutto l’orrore che si troverà davanti e intorno, riuscirà a guardare nel suo cuore e a trovarci la forza, il coraggio e la purezza per portare a termine il suo difficile compito, per guidare gli altri là dove solo una remota speranza di sopravvivenza sembrava essere in grado di segnare la rotta.

Matteo Garrone, attraverso una regia sicura e ammaliante, ci descrive, fra incanto e crudezza, lo svelarsi di luoghi e personaggi, le dune ipnotiche del deserto, le sue città, la violenza dei trafficanti, il sadismo all’interno di una prigione, i gesti di solidarietà inattesa, la grandezza del mare, il suo atavico potere di unire e dividere.

Un’odissea umana, quella dei migranti, che diventa in ogni caso sempre un racconto (quello di un’epica contemporanea) che andrebbe ascoltato, se non altro per capire come siano arrivati fino a noi e cosa li abbia spinti a lasciare la loro vita nella ricerca (a volte crudelmente illusoria) di un luogo migliore dove poter trovare rifugio e protezione.

Perfettamente consona alla trama è la scelta di lasciar parlare ognuno nella sua lingua originale (wolof e poi arabo e francese), così come lo è la bellissima presenza delle musiche che ci accompagna nelle varie tappe di questa estenuante ricerca di un lido sul quale approdare. E negli occhi di Seydou, nella sua pelle, nel suo corpo vibrante c’è il riflesso del coraggio di questi uomini e di queste donne, venuti da tanto lontano eppure mai stati così vicini.


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