Get Out, Jordan Peele, 2017

 


Ipnosi da tazzina tintinnante per andare in un altroluogo, per sprofondare (to sink) dentro se stessi, una caduta libera (un po’ come Mark Renton quando va in overdose) in uno spazio oscuro, nel quale la mente perde il suo potere e il corpo viene controllato. Da chi? Da quelle persone che necessitano una seconda casa per il loro spirito. Chiavi di lettura pseudopolitiche dell’ipocrisia white americana, parvenze di resistenza black a tentativi di manipolazione, derive gotiche negli esperimenti di una famiglia dalle buone e sane apparenze, poi tutto si sgretola e si finisce nel sangue e nella violenza. 

La fuga è reazione al sentirsi incomodo in mezzo agli altri, perché qualcosa non torna, nei comportamenti dei fratelli che non ti riconoscono come uno di loro. L’occhio di un fotografo che guarda quello che ha intorno e non lo riconosce. Supposizioni e teorie di sexslavery che portano risate sulle bocche di poliziotti increduli. Toni da commedia, cortocircuiti televisivi per spiegazioni aneddotiche, tolto il mistero, rimane la patina avvolgente della superficie. Ricordi di infanzia, essere scaraventati nella propria psiche, tornare alla superficie. Piccoli batuffoli di ovatta nelle orecchie. Per non sentire quello che ti trasformerà in un automa. Reminiscenze da voodoo africano senza passione, stilizzate in freddi movimenti concentrici, teatime in salotti borghesi, chiacchiere insulse da party domenicale, un bizzarro bingo per grotteschi benestanti bianchi. Coppie interrazziali e intercambiabili, come se l’uguaglianza fosse reale e non solo il risultato di una modesta messinscena mascherata da cinema indipendente.


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