Carlito's way, Brian De Palma, 1993
La magia di Carlito’s Way, perché questo è un film magico, è il sapere che lui morirà, saperlo fin dall’inizio, saperlo ad ogni visione ed arrivare a quel momento in cui si rivede con Gale alla stazione, davanti al treno e sperare con tutto il nostro cuore che ce la faccia, che il suo sogno diventi realtà. E’ un momento di puro romanticismo, ancora più meraviglioso perché non si realizzerà mai, se non in un ultimo e psichedelico tramonto dove Gail balla su una spiaggia, sulle note di You are so beautiful, di Joe Cocker.
Carlito torna nel suo quartiere dopo qualche anno di prigione, alcune cose sono cambiate, la strada però è sempre la stessa, con le sue regole e i suoi codici. Uscito dal carcere grazie all’aiuto del suo avvocato, Dave Kleinfeld, cocainomane e senza nessuno scrupolo, con le fattezze di uno Sean Penn luciferino, schizzato e devastante nella sua assenza di moralità, sempre in bilico fra l’apparenza del suo mestiere e gli istinti della sua natura, Dave Kleinfeld, da amico e fratello di Carlito, diverrà anche lui un gangster, fra aule di tribunale e clienti malavitosi. Ma ancora una volta non è la trama ad essere particolarmente accattivante o originale è il modo in cui De Palma costruisce sequenze su sequenze, con una incredibile maestria registica e un sincero coinvolgimento emotivo. La maniera in cui riesce a portarci dentro i pensieri e soprattutto i sentimenti di Carlito. Del suo modo (his way) di vivere e di vedere la vita. E l’amore per Gale, il suo corpo che danza armonioso e seducente, il primo abbraccio dopo tanto tempo in un bar, Carlito bagnato fradicio sotto la pioggia che la guarda ballare, una porta che li separa e il desiderio che romperà quella distanza fra il cercarsi e il toccarsi; e poi sorprese, palpiti, errori e fughe e tutte le promesse che avremmo voluto mantenere perché la nostra esistenza fosse qualcosa di diverso.
I fantastici vestiti di Carlito, l’atmosfera della fine degli anni settanta, l’avvento della disco, niente più erba ma valanghe di cocaina, il piacere, l’edonismo, gli echi del noir, la nostalgia di quelle storie, la magnifica sequenza nella stazione di treni, con una serie di piani sequenza a darci il ritmo del cuore di Carlito, quel volere raggiungere quell’attimo così agognato, in cui ogni cosa si trasformi e ci renda liberi dal passato e da quello che siamo stati.
E’ un paradosso dirlo ma la versione italiana con il doppiaggio di Giancarlo Giannini aggiunge ancora più calore e profondità al personaggio interpretato da Al Pacino. Se in Scarface era il desiderio di potenza e l’egomania di Tony Montana a costruire le dinamiche del mondo che lo circondava e che voleva tutto per sé, qui è il cuore di Carlito e il suo carisma a trascinarci nella pellicola e se la realtà è solo una grande menzogna e la sconfitta l’unica vittoria ancora possibile per raggiungere il nostro sogno, noi saremo sempre dalla sua parte, in quella corsa verso Gale, nella corsia di un ospedale, in quell’attimo in cui sappiamo, nonostante tutto, che lui (non) ce la farà.
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