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Visualizzazione dei post da maggio, 2025

The Culpepper Cattle Co., Dick Richards, 1972

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Viaggio di formazione verso la disillusione totale, in una rilettura antiepica e antieroica del western (primi anni settanta, revisionismo del genere, iperrealismo), in cui i personaggi, spogliati di qualsiasi aura mitica, vengono ripresi nella realtà dell’epoca (1866, con qualche anacronismo), tra bestiame, sudore, sangue e sporcizia, circondati da un ambiente selvaggio, durante le traversate con le mandrie e da una violenza insita nell’esistenza stessa, vivere e morire fanno porte dell’ordine quotidiano delle cose e la loro scelta è decisa solo da chi riesce a sparare per primo. La figura del cowboy è quindi quella di un semplice lavoratore, sottopagato, alle prese con furti e rapine, da cui deve salvaguardarsi e difendersi, a volte uccidendo (senza scrupoli morali), altre cercando di riprendersi con la forza ciò che gli è stato sottratto. Una pellicola polverosa, accompagnata da una coinvolgente musica folk/country , con una regia sicura e curata (Dick Richards), attenta agli indi...

The House That Jack Built, Lars Von Trier, 2018

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  Architetture della mente, del crimine, dell’arte, del cinema. Una serie di omicidi e  poi connessioni, riflessioni filosofiche e turbe psicologiche attraverso cui l’opera di Lars Von Trier prende forma (libera, personale, unica), sottomettendo la narrazione alle esigenze del pensiero, della speculazione estetica, creando cortocircuiti etici e disintegrando ogni possibile moralismo, visto che l’autore dei ragionamenti è un sadico serial killer e le sue vittime, diventano, dalla sua prospettiva, opere d’arte.  In un dialogo over con il  suo interlocutore Vergie, che finirà per spostare la storia, in una deriva dantesca e infernale, Jack (interpretato da Matt Dillon), discute delle teorie e dei progetti che gli passano per la testa, spostando così l’attenzione dello spettatore in quei territori difficili da esplorare o penetrare, in cui l’animo umano sembra perdere le proprie protezioni e affondare negli abissi della psiche e dell’istinto animale.  L’intero fi...

The man who fell to earth, Nicolas Roeg, 1976

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Un film da ricostruire nella propria sala montaggio cerebrale, se proprio se ne senta il bisogno, oppure dentro al quale lasciarsi andare, smarrendosi negli interstizi narrativi, nelle asimmetriche ellissi temporali, negli spazi che si allargano (piani lunghi, riprese aeree) e restringono (primi piani, dettagli), percepiamo così la possibilità di fare un’esperienza cinematografica altra, per non dire aliena dai canoni filmici contemporanei. Certo, in quel periodo di droghe ne giravano parecchie e molta dell’estetica e delle modalità narrative di quegli anni ne sono state influenzate, lo stesso Bowie assumeva parecchia coca e la sua immagine glabra, asciutta e asessuata sembra uscire fuori dalla copertina di Low (pubblicato l’anno seguente al film), con lo stesso taglio di capelli e quella tinta arancione. Bowie, che interpreta oltre a se stesso anche il personaggio di Thomas Jerome Newton appare spaesato, confuso, forse vittima di circostanze di sceneggiatura a lui totalmente estranee...