Climax, Gaspar Noé, 2018


C’è una pila di libri alla sinistra della televisione dove passano le immagini di spezzoni di interviste ad alcuni ballerini e alla destra ce ne è un’altra, composta di videocassette. Fra i titoli scorgiamo dei film che andranno a permeare l’intera pellicola di Gaspare Noè. Come presenze, come fantasmi di un passato cinematografico che il regista vuole portare con sé. Possession, nella possessione lisergica dei corpi dei protagonisti, senza più controllo psicologico, liberi di esplodere  in atti di follia interpretativa. Salò o le 120 giornate di Sodoma, nelle posizioni coreografiche di apparente sottomissione, nella violenza di gesti improvvisi, nel sadismo della prevaricazione umana, nell’autolesionismo, nell’incesto. Querrelle, nei desideri e negli impulsi omosessuali, Suspiria, nei colori, nella centralità della danza come pura composizione visiva. Sembra mancare Shining, per gli interni e i corridoi e la neve che circonda la scuola e il senso labirintico dei movimenti della macchina da presa.
Gaspar Noè è ossessionato dall’intento di stupire e destabilizzare lo spettatore ad ogni costo, manomette l’ordine dei titoli di apertura/chiusura, alterna lunghissimi piani sequenza a frammenti di dialoghi, persiste nel mostrare la violenza e il suo linguaggio, si annoda in riprese che finiscono per vorticare in una perdita di equilibrio percettivo, l’acido non è stato bevuto solo dai partecipanti al party, sviluppa i suoi effetti anche sull’occhio meccanico che li riprende (allucinazioni, escluse).
Poche prove, quasi tutta improvvisazione, attori non professionisti, il senso strisciante di uno spostamento in un territorio oscuro al di là delle normali percezioni, la musica elettronica che segna possibili direzioni da seguire, da esplorare, in passi, in cadute, in battaglie fra i sessi, che sarà poi il fottere a risolvere: istinto e animalità.
Psicodramma allucinogeno Climax è come un orgasmo negato, un’ascensione psicotica verso nulla che trascenda i limiti del cinema che si vorrebbero superare, sempre qui si torna, in questa gabbia, in questa cornice, in questa dolente e a tratti meravigliosa illusione, non saranno gocce di LSD negli occhi (ad avercele, comunque) a mostrarci gli inganni di questa esistenza e di quanto di essa l’arte si nutre, divorandola e trasformandola in suoni e visioni. 

 

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