Paris, Texas, Wim Wenders, 1984
La musica di Ry Cooder ci accompagna in questa dimensione fluida e senza parole, aperta all’immaginazione e a ogni sua possibile svolta. E’ dal suo stesso titolo Paris,Texas, dalla semplice foto di un cartello, che questo film dichiara la sua potenza narrativa, non tanto nella storia raccontata ma nell’innumerevole quantità di spunti che da essa potrebbero nascere. Wenders ne sceglie una fra tante, quella che segue i sentieri dell’ispirazione, delle sensazioni, degli accenni, dell’anima.
Poi il lento ritorno di Travis alla normalità sociale, dall’individualismo erratico a quei rapporti interpersonali che ognuno di noi ha costruito (o distrutto) nel corso della propria vita e che lo fanno riavvicinarsi prima al fratello e alla moglie di lui, poi al figlio e infine ad una donna amata e perduta. Questo tentativo di lasciarsi riassorbire dall’umanità, di scivolarle dentro per riscoprirne il calore diventa il desiderio di un nuovo viaggio, questo volta non solitario, perché Travis viene accompagnato dal figlio, nella ricerca di Jane, per sapere cosa le sia successo.
Wenders costruisce sulla sensibilità attoriale di H.D.S la riscoperta della relazione con il bambino, attraverso lievi tocchi, sfumature, piccole gesti e giochi, che rendono le distanze fra i due sempre più sfuocate. I fantasmi del passato e la loro felicità appaiono come immagini di un filmino amatoriale. E poi l’uso del colore fatto in modo espressivo, con la presenza del rosso (un cappello, un maglione, interni e oggetti) a ricordarci che le emozioni hanno anche una forma fisica, una sostanza tangibile, come in una tela costantemente dipinta nel corso del tempo e poi tonalità blu e bianche e luci verdastre come residui di una malattia dell’anima, dalla quale Travis ha provato a scappare, rifugiandosi in un mondo di solitudine e mutismo, nel suo avanzare lungo un camino di incomunicabilità verbale. Ed è infine in uno struggente tentativo di capirsi ancora, di spiegarsi un’ultima volta, che Travis si riavvicina a Jane (N.S. è meravigliosa nel suo corpo, negli sguardi, nelle labbra, nella sua età) raccontandole la storia di loro due, del dolore e della gioia, dei significati nascosti che ogni relazione possiede e di quelli che non sono mai esistiti. E lo farà attraverso un telefono, fino a quando il riflesso del suo volto si confonderà con quello di Jane nello specchio che li separa e questa confessione finirà per ricreare una unità (o la sua apparenza), che in un passato ormai scomparso era stato l’amore a generare.
Cinema empatico e dispersivo, dolente e infantile nel suo incanto di scoperta, pieno di tributi ai miti della libertà, della strada e dell’antieroe della letteratura americana, ode malinconica di una ricchezza filmica inestimabile, che parla direttamente al cuore di tutti quelli che hanno imparato che la perdita di chi abbiamo sempre creduto di essere è l’unico modo per scoprire chi realmente siamo, perché nelle infinite direzioni e possibilità di questo mondo c’è una strada che porta dentro di noi, mentre continuiamo a camminare senza sapere come raggiungerla.
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