Parasite, Joon-ho Bong, 2019

 


A un livello ideologico chi è il parassita? Il proletariato urbano sudcoreano che vive in un seminterrato piegando cartoni della pizza per sopravvivere e finisce per attaccarsi agli agi di una famiglia borghese soddisfacendone ogni bisogno o quest’ultima, i cui membri adulti sono incapaci di guidare, fare la spesa, pulire la casa, lavare i piatti e badare ai propri figli?

Al di là di queste futili e forse inutili speculazioni di classe, di queste superficiali domande intellettuali, c’è il sottosuolo della psiche umana. l’orrore e la speranza che esso nasconde, fino ad agonizzanti esplosioni trascendentali di violenza e sangue, in una luce meravigliosa, come quella presente in alcuni sogni - I frammenti, i dettagli, l’illogica successione degli eventi repressi dalla ragione, i fallimenti ghignanti, i piedi nudi di una donna come segni tangibili di dominazione, perché poi sono le dinamiche sadomasochistiche quelle che interessano al regista, le coreografie della sottomissione, i giochi di potere, gli atti di feticismo (mutandine usate, voyeurismo, la fellatio a una banana, masturbazione) che trasfigurano le immagini in una estetica che si sviluppi oltre la morale comune, dove ogni piano conosce la sua inevitabile disfatta, perché è solo nell’assenza di una direzione che risiede la libertà di perdersi e ritrovarsi e perdersi di nuovo.

La tecnologia mobile puntata come un’arma o usata nella rabdomantica ricerca di un segnale, esplosioni fognarie come metafora di un’umanità degradata e orgogliosa di esserlo - Ci penserà l’isolamento forzato e il codice di un linguaggio elettrico a darci il senso del nostro esistere, cioè nessuno, illusione dopo illusione, ogni inutile speranza che diventa la successiva, è un lungo percorso quello per uscire dalla propria gabbia, più lungo forse della vita stessa.

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