Alice in den Städten, Wim Wenders, 1973



I capelli di Alice, il suo volto illuminato dalla luce del sole, in un caffè, davanti ad un gelato che si sta squagliando, Felix la guarda, scarabocchia sul suo quaderno, un’attesa che diverrà una meravigliosa amicizia.

Le immagini degli States, le polaroid scattate all’improvviso, raccontare una storia attraverso le foto, intuizioni visive, senza parole, oltre N.Y. lo spazio si ripete all’infinito, sempre uguale, in sequenze di negozi, insegne, stazioni di rifornimento e stazioni radio, piloni dell’alta tensione.

In movimento, perenne movimento, attraverso l’oceano, in aereo, il ritorno in Europa, Amsterdam, i canali, la Germania. Il viaggio si trasforma in incontro, nel rapporto tra un uomo e una bambina di nove anni (è possibile l’amore in questa apparente e incolmabile distanza?), Felix sorride ad Alice in treno, le confessa con uno sguardo che la storia che sta scrivendo parla di lei, che tutto quello che stava cercando ha il suo volto e i suoi occhi.

Identità perdute, frammenti di esistenze che ci passano accanto, brevi incontri, una moltitudine di possibilità, di deviazioni, la libertà è anche non dover scegliere quale strada prendere.

I residui della cultura popolare americana, mentre scivolano nella coscienza, il rock and roll/Chuck Berry, le bottiglie di coca cola, una foto su un giornale di John Ford, Tender is the night – Di città in città, piani orizzontali di visione. Alice e Felix affacciati al finestrino di un treno, la macchina da presa si stacca dai loro volti, vola in alto, nel cielo, ormai libera di perdersi ovunque.


 

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