More, Barbet Schroeder, 1969
Ibiza era una delle mete preferite dagli hippy alla fine degli anni sessanta, prima che si riempisse di discoteche e club ed è il luogo apparentemente idilliaco in cui arriva Stefan, giovane laureato tedesco, alla ricerca di qualcosa di diverso, in una sorta di viaggio di scoperta di sé stesso. La dritta per la sua destinazione gli è stata data da una giovane americana incontrata a Parigi, Estelle, che il ragazzo ritroverà poi proprio sull’isola.
Barbet Schroeder, a differenza di altri registi di pellicole similari dello stesso periodo, sembra avere le idee abbastanza chiare su cosa e su come vuole girare la sua opera d’esordio, senza perdersi in quella confusione che la quantità di droghe mostrate e usate nel film potrebbero produrre. Si respira l’aria della Nouvelle Vague, con un ampio uso della macchina a mano, nella libertà del racconto, in uno stile narrativo che si fa subito personale.
L’apparenza di un idillio, dicevamo, quello della controculura e di essere giovani in quel periodo. Si sperimenta, si usano i propri corpi nella ricerca del piacere. Il sesso, dunque, senza troppe inibizioni. E le droghe, anche, perché almeno una volta nella vita tutto bisogna provare. Ed è così che Stefan, sedotto da Estelle, si va a infognare con l’eroina e dall’abbraccio di entrambe purtroppo non riuscirà più a liberarsi.
I personaggi che vengono e vanno, come è di consuetudine nell’isola, sono i più variegati. Un vecchio tedesco di cui si ipotizza un passato da nazista vende eroina e marijuana direttamente nel bar che gestisce e nel quale Stefan si ritroverà a lavorare per saldare i debiti della sua amante. Dunque sotto la superficie lucente del sogno e dell’utopia giovanile si celano sempre le solite schifezze umane, il possesso, la gelosia, la stupidità, il bisogno, la dipendenza. Si usa l’acido per uscire dalla ruota della roba, nella ricerca di una illuminazione chimica che può arrivare così come come possono sorgere i demoni che ognuno si porta dentro. Schroeder ha un occhio acuto e una maniera di mostrarci la sua generazione che non è accondiscendente ma ne svela lentamente le pene e gli inferni. La tossicodipendenza dei due si fa sempre più pesante e con essa scompare forse la gioia dei primi incontri. In una scena viene preparato in un mortaio un miscuglio esplosivo di tutte le sostanze che la coppia ha a disposizione: hashish, marijuana, benzedrina, ibogaina, noce moscata e dulcis in fundo fili essiccati di banana. Stefan e Estelle escono poi di casa saltando come indemoniati. In preda agli effetti si lanciano contro un mulino a vento in piena esaltazione donchisciottesca. C’è comunque un malessere costante che striscia sotto le immagini e per me una sorta di antipatia a pelle per il protagonista maschile. Estelle è giovane, bella, con un corpo magico, con tendenze sadomasochistiche e veste sempre in maniera succinta, è arrapante e per questo magnetica e mortale. A completare il quadro lisergico le note dei Pink Floyd di cui conoscevo la colonna sonora ancor prima di vedere il film, chissà perché mi ero immaginato altre sequenze quando ascoltavo le canzoni.
Green is the colour e Cymbaline i pezzi che mi porto nel cuore.
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