The Hateful Eight, Quentin Tarantino, 2015

 

Il pavimento di legno dell’emporio di Minnie come le assi di un palcoscenico. Ruoli da interpretare, psicodrammi in atto, il metodo Stanislaski in tutto il suo splendore. Personaggi e attori che si costruiscono a vicenda, che parlano, (si) raccontano, inventano storie, rimandano a interpretazioni passate, a film precedenti. Ci sono Le Iene e Pulp Fiction, quel modo di narrare, i dialoghi che si concentrano su un dettaglio che sembra sempre di poca importanza e che poi si trasforma in fulcro, perno della sceneggiatura. La lettera di Lincoln, la battaglia di Baton Rouge, giacche grigie e giacche blu, lo stufato di Minnie. Il razzismo profondamente comico delle battute, impossibile da prendere sul serio, i suoi effetti devastanti sull’incedere dell’intreccio, le esplosioni di violenza, le iperboli visive di sangue e pezzetti di cervello sparsi sui volti o sul pavimento (ma non c’è più nessun Mr. Wolf da chiamare per risolvere i problemi), un superbo gioco al massacro in cui tutti sono carne da macello nel teatro delle crudeltà di Tarantino, che colpisce lo spettatore non tanto per portarlo a pensare, quanto per fargli prendere uno spavento o fargli fare una risata, dipende dalla sensibilità di chi guarda.  

Il regista si affida al formato 70 mm per dare profondità al suo palcoscenico, rimodellando uno spazio che altrimenti sarebbe apparso claustrofobico e che invece trasmette un senso di apertura, anche per i movimenti degli attori, per le loro interazioni, a volte la luce sembra provenire dagli oggetti, dai tavoli, dai volti, dal loro interno, acuendo le percezioni (come per Vincent Vega, quando apriva la valigetta di Marcellus Walllace) facendo immergere il nostro sguardo in questa pellicola, avvolgente e straniante, dove sono sempre le immagini a catturare, a rapire. Ci si relaziona al cinema di Tarantino non da un punto di vista intellettuale ma estetico, la forma costruisce qualsiasi possibile interpretazione, in quella forma prendono vita storie, il suo personale gusto e stile di narrare (ancora i capitoli, ancora una temporalità spezzata), bisogna assolutamente stare al suo gioco per rimanere appagati dalla visione.

Il masochismo di Daisy, i suoi sorrisi maliziosi dopo un pugno in faccia, la sua lingua che lecca il sangue che le esce dal naso rotto, il sadismo e l’inaspettata dolcezza di John Ruth, mentre pulisce la bocca di Daisy o si commuove quando legge la lettera di Abramo Lincoln, particolari, piccoli tesori di immenso valore, una canzone suonata su una chitarra come una dichiarazione d’amore e di morte, Joe Gage che torna a casa per Natale a trovare la madre, uno sguardo malinconico carico di ricordi inesistenti, il Maggiore Marquis Warren che si fa succhiare il cazzo dal figlio del Generale Sanford Smithers e ride, ride, mentre lui trema e ingoia tutto il suo palo nero, Bob il Messicano che suona il pianoforte e si arrotola una sigaretta di manzana roja, Chris Mannix e Marquis Warren, sul loro letto di morte, coperti di sangue, quel rosso vischioso che li unisce negli ultimi attimi delle loro vite, al di là di ogni razzismo e differenza, quella lettera, finta, bellissima, poetica, quelle ultime parole sussurrate e buttate via, un impossibile e meraviglioso istante di umanità, quando il grandguignol delle viscere è ormai finito e rimane solo il silenzio e il corpo appeso di una donna che dondola nel vuoto a sancire la fine di questa irraggiungibile e già iconica finzione.

 


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