Gummo, Harmony Korine, 1997



Ancora kids e anche gente più cresciuta, nei sobborghi di una cittadina americana, in un mosaico di miserie umane, pure nel cuore e nello sguardo. Si attraversa la vita borderline di ragazzi e giovani adulti, in un patchwork visivo di immagini, videotape, polaroid, vhs, una estetica altra, aliena che confonde e destabilizza, che porta alla luce intimità e violenze, tenerezza e stupidità, passati angosciosi e presenti instabili. Si scontrano e si amalgamo insicurezze e tentativi, epidermiche improvvisazioni a cui partecipiamo sempre con la sensazione di trovarci di fronte a qualcosa di sfuggente, ai limiti, di osservare quello che succede lungo il perimetro frastagliato dell’esistenza, oltre il quale c’è il pericolo di perdersi, abbandonarsi, non saper più riconoscere quello che accade o dove si stia andando. C’è un ragazzo muto con le orecchie da coniglio. E altri che uccidono gatti per fare un pò di soldi e poi tirare colla per stordirsi. Ci sono interni di famiglie disfunzionali. Nonne in stato vegetativo, mamme che ballano il tiptap con una pistola in mano, giovani ragazze che vedono il loro corpo cambiare, giovani ragazzi alle prese con il loro testosterone, omosessualità latenti, nani, imberbi travestiti, vecchi pervertiti, un tornado che ha distrutto case, bambini che sproloquiano, torture ad animali, schegge di satanismo, canzoni famose e canzoni commerciali e altre come esplosioni di estreme sonorità metal. Provocazione e disturbo. O forse una realtà parallela che solo un linguaggio filmico reinventato e sperimentale poteva raccontare. Gummo è un flusso audiovisivo anarchico in cui si rischia di annegare, perché ci porta dentro di esso, in una totale assenza di appigli etici, in cui eutanasia e sadismo vengono praticati quasi con dolcezza, in cui si rispecchia la fragilità emotiva e psichica di una generazione risucchiata nei gorghi di una totale deriva esistenziale. Tutto è grottesco, bizzarro, weird. Un circo di freaks contemporaneo, di cui non si sa che pensare, forse è meglio così, perché l’ipnosi visiva di queste sequenze funziona e la sua allucinatoria natura pure, scavando dissensi nello sguardo di chi assiste, scaraventandoci in un rabbit hole percettivo dal quale non si sa più come uscire.


 

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