Vertigo, Alfred Hitchcock, 1958
Quadri allucinatori nella cornice di una ossessione. Sin dai titoli di testa (Saul Bass), con i giganteschi dettagli di occhi e labbra. Le bugie delle parole e le storie che gli sguardi inventano. Poi composizioni geometriche in movimento concentrico. Spirali ottiche. Sequenze in cui i colori pulsano e le figure si stagliano oltre lo spazio, in silhouette che cadono nel vuoto. Vertigine non è solo quella provata guardando in basso è anche e soprattutto quella dell’ascesa, della salita, del climax dell’orgasmo. Possibili letture sessuali. La torre come simbolo fallico e un uomo ridotto all’impotenza. La guarigione attraverso la morte e il sacrificio di una donna amata. Amata e ricostruita. Amata e (re)inventata. Nei gesti, nei vestiti, nel portamento. Nella tinta dei capelli. Doppi che si svelano e sovrappongono. Dettagli impressi nella memoria. Immagini pittoriche, cromatismi così saturi che sembrano appartenere a luoghi onirici. Il rosso avvolgente delle pareti di un ristorante. Colori come svelamenti psicologici. Poi il buio di una foresta con spiragli di luce che filtrano in profondità, come metafora dell'enigma della psiche femminile. Sempre in bilico sull’orlo di un dramma di cui non si può capire la natura, la verità che si insinua nelle tentazioni della menzogna, non c’è più una identità concreta, siamo quello che gli altri immaginano di noi, solo un riflesso nella bramosia di chi ci guarda. In un ammaliante detour attraverso le strade di San Francisco James Stewart segue i fantasmi di qualcuno che non esiste ma che la fantasia e il voyeurismo del personaggio che interpreta (John “Scottie” Ferguson) rendono reali. E allora è l’immagine di una donna misteriosa a diventare il luminoso oggetto del desiderio mentre l’altra, l’amica, la compagna fedele e paziente non è altro che languida presenza, spogliata di qualsiasi sensualità, reale eppure insignificante. E’ nel torbido labirinto delle pulsioni inespresse che Scottie trova un corpo (quello di una splendida Kim Novak) che potrebbe farlo guarire dalla sua paura di ergersi, di innalzarsi, di possedere carnalmente. Ancora inseguimenti, ancora falsificazioni. Hitchcock realizza un superbo affresco cinematografico in cui ciò che pulsa è costantemente velato, celandosi sotto la magnificenza visiva della messinscena e la perfezione della regia. Con la presenza di inquadrature diventate ormai iconiche come quella del Golden Gate, prima che Madeleine tenti di suicidarsi. Avvolgenti e seducenti strategie femminili. Sembra di muoversi nelle trame suadenti di un sogno, lungo i confini del quale fatti ed eventi possono capovolgersi e diventare altro da quello che sembrano. Il manifestarsi di una chimera erotica senza mostrare nulla che sia peccato, compresa la presenza di quella morte che finalmente ci può liberare dal passato.
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