Lost Highway, David Lynch, 1997
Un altro non-luogo che non può non esistere se non nella mente del regista. Lost highway. Strade perdute della memoria. Perché i ricordi siano quelli che noi vogliamo e non esattamente la copia mnemonica di ciò che è realmente accaduto. Sdoppiamenti di personalità e filmini pornografici. Con il volto gigante di lei che ti guarda mentre si sta facendo scopare da dietro. Brucia il desiderio e quel misto di eccitamento e frustrazione. Lei ti dice cosa fare e in un modo o nell’altro ti porterà dalla sua parte. Una seduzione dolce e avvolgente e rischiosa. Patricia Arquette va a prendere il giornale della mattina in vestaglia e tacchi alti. Trova una videocassetta. Bill Pullman suona il sax in un club come se stesse eiaculando, peccato che al letto il suo strumento non abbia la stessa potenza e intensità. Gli interni, i colori desaturati delle pareti, il design del subconscio, le stanze allineate di un incubo in un hotel nel deserto. Riverberi di luce elettrica da dietro le porte. Braccia amputate e un omicidio registrato fra le interferenze in bianco e nero di un nastro. Un occhio che guarda, un altro che filma. Ci spostiamo in quella dimensione in cui tutto si altera e segue logiche diverse, come quelle di un sogno. Corrono veloci le linee gialle di una strada notturna mentre la voce di David Bowie ci trascina altrove. Superbe visioni, feste e festini, lavori di cui ci si dimentica, passati che potrebbero essere riscritti o mai esistiti. Una voce al citofono. Dick Laurent is dead. Il ciclico vagare di significati di ambiguo mistero. Un vecchio gangster con le sue macchine e le sue manie e le sue donne dai capelli color platino. A magic moment canta Lou Reed mentre Alice incolla il suo sguardo su Pete e lui è immediatamente perduto. Il sesso, in continuazione. Perché questa è la gabbia e questa è la trappola. Fucker gets more pussy than a toilette seat, è la battuta acida di un poliziotto. C’è sempre il cinema che ci illude da illudere, attraverso i suoi generi e la sottile maniera che Lynch ha di deriderli e destrutturarli e allora ci spingiamo anche noi, insieme lui, in territori filmici bizzarri, macabri e inesplorati ma anche stranamente familiari se abbiamo saputo seguire il suo percorso artistico. Una tenda rossa, lungo un corridoio, che divide mondi differenti. Spiriti maligni. Mistery man. Possessioni adultere. Adulte depravazioni. Perdersi, perdersi è il modo migliore per lasciare che l’ignoto si impadronisca di noi. E altre visioni, una casa in fiamme, le percezioni alterate come se qualcuno ci avesse dato di nascosto qualche droga allucinogena, è il cinema stesso che moltiplica i suoi effetti e ci arriva diritto nel cervello in una nuova forma filmica che racchiude e manipola e disintegra ogni sequenza. Circolarità del tempo, detour dello script e immaginazione narrativa al potere. Lo stile di Lynch, il suo terrorismo visivo, il sabotaggio surreale del racconto, ogni volta che ci ritroviamo in un suo film, anche se potrebbe essere solo un’esperienza onirica o un viaggio nella notte o forse un sublime scherzo in cui pericolo e sangue, bellezza e perversione ne impregnano la materia, pura allo sguardo e selvaggia nel cuore.
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