Medea, Pier Paolo Pasolini, 1969

 



Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo - Cinema visionario e antropologico, narrato attraverso la ricchezza visiva delle immagini, dei colori, dei costumi - Testi classici rielaborati in chiave pittorica, dove la forza delle parole trascende la propria natura verbale per diventare corpo filmico, smembrato e divorato, ricostruito secondo logiche liriche, ritmato da pulsioni ancestrali, circondato dai misteri di luoghi magici e antichi - Rituali pagani attraverso atti di violenza e catarsi, il dischiudersi davanti ai nostri occhi di un mondo tragico e perduto, posseduto da presenze ctonie - Le alte mura di fortificazioni desertiche, le geometrie visive di cortili rinascimentali, la presenza magnetica e enigmatica di Maria Callas, maschera ambigua del mistero dell’universo femminile - Sonorità rarefatte e ipnotiche, dissonanti e ataviche - Osserviamo questa costante meraviglia della macchina da presa nello svelare i segreti di una dimensione altra, ignota e seducente, piena di simboli, feticci e divinità animali, inebriata dai sacrifici, dal sangue versato, in cui le connessioni fra le cose, le persone, gli eventi, seguono dinamiche invisibili eppure presenti, perché insite nella trama ignota della vita stessa - Pasolini realizza un’opera di difficile lettura e comprensione, frammentaria nella sua composizione, in cui sono i diversi quadri ad emergere e splendere nella loro potenza figurativa, questo personale mosaico narrativo, a tratti allucinatorio, diventa un viaggio nel mondo del mito e degli archetipi, in cui bisognerebbe smarrirsi come all’interno di una visione, lasciando oltre i suoi margini frastagliati il tentativo di ogni comprensione razionale. 


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