Oppenheimer, Christopher Nolan, 2023
Un racconto complesso, i cui fili si annodano e dipanano in diversi piani temporali e spaziali, seguendo la ormai tipica struttura narrativa a incastro dei film di Nolan. Frammenti di storie, confessioni, supposizioni, menzogne, possibili verità, in un mosaico che attraversa le vite di uomini che hanno segnato uno dei punti di svolta del secolo passato: l’invenzione della bomba atomica. Rivoluzioni scientifiche, artistiche e politiche in atto, in un momento il cui il mondo stava per cambiare, per conoscere nuovi scenari, per apprendere la potenza dell’atomo, della sua fusione e della sua fissione. Prometeica parabola, visionaria percezione della realtà, incalzante sfida contro la materia, quella di cui siamo fatti, il potere sprigionato in un singolo attimo di divina supremazia, l’estasi visiva della prima esplosione, un’estetica fungiforme di morte, little boy, fat man, uranio, plutonio, progetto Manhattan, Trinity, dopo quella rivelazione nulla sarebbe più stato come prima.
Fino al test nel deserto di Los Alamos il film di Nolan mantiene una tensione costante, abilmente creata fra l’interazione dei personaggi, i loro punti di vista, le ellissi e le omissioni volontarie, gli apparenti misteri, cinematograficamente amalgamata attraverso l’uso serrato del montaggio, di primi piani, di volti, di sguardi e poi spazi aperti, la presenza quasi mistica del deserto, poi laboratori, stanze, aule di tribunale e di università. Un mondo accademico che si trasforma, si reinventa, militarizzato e rinchiuso in una città costruita dal nulla, in compartimenti teorici in contatto fra loro, in un’analisi costante dei propri progressi, fino a quando l’alba atomica aprirà nuove porte etiche e morali nelle quali guardare e guardarsi.
Raggiunto il proprio climax narrativo, Nolan ridiscende attraverso un intreccio processuale verboso e didascalico, con il suo classico gioco di specchi, di possibili interpretazioni, di vuoti riempiti, di misteri svelati. Eppure in questa spregiudicata volontà di spiegare, di riallacciare tutti i fili, si finisce per indietreggiare, come spettatori, non per mancanza di interesse quanto per il desiderio di rallentare, di tirare il fiato, di poter riflettere, oltre la coltre radioattiva di idee in fase di futura contaminazione patriottica e imperialista, su quello che abbia significato questo irripetibile assembramento di menti, concentrate su un unico obiettivo, che più di ogni altro, avrebbe potuto significare la fine della nostra esistenza e del nostro mondo.
La figura di Oppenheimer rimane contraddittoria e sfuggente anche se narrata con una sorprendente abilità e interpretata da un magnifico Cillian Murphy (la cui controparte attoriale, Robert Downey Jr., è ancora più spiazzante e straordinaria) e dal suo percorso umano e professionale non possiamo che essere coinvolti e affascinati, anche grazie a quanto Nolan ci mostra di lui. Ma delle conseguenze e di cosa sia successo laddove le bombe sono state sganciate il film non parla, dell’Unione Sovietica e della sua corsa atomica abbiamo supposizioni di tradimenti e spie, del genocidio compiuto dagli americani per far concludere la seconda guerra mondiale si accettano invece tutte le difese senza formulare nessuna accusa. Basta che rimangano come monito per l’umanità le parole che si dissero Einstein e Oppenheimer, in un giorno ventoso, sulle sponde di un piccolo lago di un campus universitario.
“Suo padre a loro parlava poco della Trinità. Perlopiù l’aveva incontrata nella letteratura. Sdraiato a faccia in giù nel bunker. Le loro voci sommesse nelle tenebre. Due. Uno. Zero. Poi l’improvviso meridiano di bianco. Là fuori le pietre si dissolvevano in una loppa che ristagnava sulle sabbie del deserto. Piccole creature rannicchiate e atterrite in quel giorno improvviso e scellerato che poi sparivano. Quella che sembrava un’enorme creatura violacea che si sollevava dalla terra dove aveva pensato di dormire il suo sonno immortale in attesa dell’ora delle ore.” da “The passenger” di Cormac McCarthy. Per favore, leggetelo.
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