Killers of the flower moon, Martin Scorsese, 2023

 


Blues sepolcrale, scandito dalle musiche originali di Robbie Robertson, alla cui memoria il film è dedicato e che alla pellicola donano il pulsare e il respiro del suo procedere, anche se poi è la morte il centro oscuro della storia, la morte e la malattia. 


Scorsese si abbandona, senza mai perderne il controllo, a una estesa e lenta narrazione, che comincia dal cinema muto e si conclude in uno studio radiofonico, in cui le immagini svaniscono, per lasciare spazio solo alle voci, ai suoni, il lavoro di Scorsese come regista è finito e si può concedere il lusso di un cameo davanti a un microfono, in fondo il suo mestiere non è altro che quello di saper trasformare le parole di una sceneggiatura in sequenze di fotogrammi.


Killers of the flowers moon è un film cupo, sanguigno ma non viscerale, in cui i corpi dei nativi diventano cadaveri per l’avidità e la brama di denaro dell’uomo bianco, la vera infezione di una terra un tempo sacra a chi la abitava: le cerimonie, gli spiriti, le visioni. Poi le nuove divinità: i dollari e il petrolio e le pianure che diventano terreni da perforare, costellazioni di pozzi e bestiame. Campi lunghi a misurarne la vastità dentro l’inquadratura. Il whisky come tentazione e improbabile cura, nessuno ne verrà salvato. Un tempo il sole era chiamato nonno, la terra madre, il fuoco padre. Le tribù si muovevano seguendo il ciclo della natura. La famiglia dell’uomo bianco, invece, è unita per interessi economici, per investimenti, per accumulo di capitale. Scorsese rievoca un altro dei grandi temi rimossi della storia americana, quello della graduale distruzione di una cultura e di una società (quella dei nativi) in nome dell’espansione cancerogena di un altro popolo e del suo ideale di vita e progresso.


La presenza di una donna (Lily Gladstone), di una energia femminile, della sua forte fisicità statica, anche se afflitta dal diabete e indebolita da una droga mischiata all’insulina che deve assumere, riesce a bilanciare da sola quella degli altri due grandiosi protagonisti, Di Caprio e De Niro, a loro volta in perfetto equilibrio attoriale e  inseriti magistralmente nell’epico svolgersi del racconto, mentre elaborano e mettono in atto le loro strategie di arricchimento personale. Primi piani a catturarne intensità e sofferenza, derive interiori e dubbi. 


Ancora cenni storci ai margini e all’interno, come il KKK e la nascita del FBI, mentre la pellicola si trasforma e si lascia sedurre da elementi del western, del gangster movie e del melodramma. Poi sprazzi di commedia, e parentesi di legal movie con le sue aule di tribunale, avvocati e giudici. Scorsese si cementa soprattutto con le possibilità filmiche del racconto cinematografico, nell’idea di film come opera da fruire nella sua totalità, sfiorando le tre ore e mezza di visione, in questo lunghissimo groviglio di eventi, facili da perdere e invece coesi in una sola pellicola dalla mano di un regista formidabile.


Il suono dei tamburi, le danzi rituali, un occhio che ci guarda, il cinema, per alcuni, rimane ancora una magia possibile.


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