Victoria, Sebastian Schipper, 2015

 


Siamo in un club, a Berlino, le luci stroboscopiche e la techno, una ragazza spagnola che balla, la macchina da presa le sta addosso, quello sguardo non la lascerà più, ci farà immergere totalmente negli avvenimenti della notte, negli incontri, nei rapporti umani, quelli con dei ragazzi tedeschi, che Victoria conoscerà poco dopo e che la porteranno con loro, prima solo a bere e scherzare poi in qualcosa di più profondo e sconosciuto – I battiti del cuore aumenteranno, l’adrenalina trasformerà la percezione, si vive dentro la storia, con i personaggi, si respira insieme a loro, si possono provare le stesse emozioni, sempre più intense, cambiamenti repentini ed improvvisi, una corsa verso una impossibile fuga, la realtà che non lascia scampo come in un incubo da cui non si riesce più ad uscire. 

Le uniche pause concesse dal regista a questa immedesimazione totale sono quelle sonore, ci si allontana per alcuni minuti dall’esperienza diretta del film attraverso la musica, malinconiche armonie sospese sui tasti di un pianoforte, nessun rumore, nessuna parola, ci si sente leggeri, distaccati, possiamo osservare dall’esterno quanto sta succedendo, respirare, scivolare con le immagini in un tempo senza peso. 

Poi di nuovo dentro, risucchiati, con il fiato corto, mentre la notte ancora non vuole finire e il flusso del cinema è inarrestabile, la macchina da presa a mano che freme, nervosa, inquieta, incollata ai corpi, ai volti, quello che c’è oltre i confini dell’azione è fuori fuoco, a volte, quasi non esistesse, tutta l’attenzione è per il gruppo di ragazzi e per Victoria, le loro emozioni che vibrano, le loro esistenze sul punto di svanire con l’arrivo dell’alba, una strada deserta, nessuno, in questa città, che saprà mai cosa hai fatto per essere lì in quel preciso istante, la vita continua, altrove, la macchina da presa si ferma e Victoria è finalmente libera di proseguire oltre il suo sguardo. 

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