Der Amerikanische Freund, Wim Wenders, 1977
What’s wrong with a cowboy in Hamburg? Chiede Dennis Hopper a Nicolas Ray, nel suo studio di pittore, fra le sue tele, che forse saranno vendute o forse no, arte e denaro, colori e falsificazioni, il rosso sanguigno della facciata del palazzo dove Nicolas Ray vive, quello dei titoli di testa, il blu delle sue opere, quello per cui è divenuto famoso - Dennis Hopper è sul balcone della villa in cui risiede ad Amburgo, si affaccia alla ringhiera recitando i versi della canzone finale di Easy Rider - Malinconie e perdite interiori, smarrimenti psichici, una serie di polaroid scattate in autoritratti sequenziali, espressioni fermate nel tempo, le lacrime che iniziano a scendere - Amburgo, Parigi (esterni, il sottopassaggio di Ultimo Tango), NewYork, spazi metropolitani che si intersecano e combinano in una mappa filmica avvolgente e ipnotica - Sarà un malinteso, una reazione inopportuna di Bruno Ganz quando viene introdotto a Ripley (D.H) a mettere in moto il susseguirsi della trama, un dettaglio narrativo, dunque - Cornici e inquadrature, we have nothing to fear except fear in itself, dinamiche sotterranee di un omicidio improvvisato, quelle in movimento di un assassinio sul treno, una strana amicizia che prende forma, l’incontro di una vita alla deriva con un’altra sul bilico della presa di coscienza della propria morte, malattie del sangue e dell’anima, there’s too much on my mind (The Kinks) canticchia Bruno Ganz nel suo laboratorio - Samuel Fuller fuma il suo sigaro, mentre le riprese di un film porno stanno per iniziare - Lou Castel, malinconico e silenzioso, suona alcune note su un piano - Wenders ci racconta il cinema americano che ama, attraverso i suoi registi preferiti e ci trasporta in una storia attenta alle sfumature psicologiche e intime dei suoi protagonisti, riuscendo a tramettere sensazioni e umori, tanto dei personaggi quanto degli ambienti in cui vivono e si muovono - In toltale ci sono sette registi in scena: Hopper, Fuller, Ray, Eustache, Blain, Lillenthal e Schmid - E ancora gli interni di un appartamento in cui una vita familiare comincia a sgretolarsi ma anche le meraviglie dell’infanzia, soprattutto nella presenza di giocattoli meccanici, lampade che ricostruiscono l’illusione del movimento - E questo è il cinema, nella sua essenza tecnica - Frammenti di strade, squarci di muri con scritte che si riferiscono alla banda Baader Meinhof, zone urbane andate poi distrutte, i palazzi di mattoni, ciò che è stato e non è più nel continuo passaggio fra un luogo e un altro, il desiderio inconscio di smarrirsi è tenuto insieme da Wenders dalla sua regia, che amalgama lo spazio e il tempo e lascia molteplici spiragli aperti all’immaginazione, la sua e la nostra, sottotrame noir, detour esistenziali fra le possibilità di un intreccio (tratto da un romanzo di Patricia Highsmith) che trasforma le dinamiche della malavita in quelle di una ricerca di sé stessi, interpretando ruoli diversi o cercando risposte alle proprie azioni, qualunque esse siano e dovunque esse ci portino.
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