Lou Reed's Berlin, Julian Schnabel, 2007

 


Provate a non emozionarvi quando Lou Reed canta Caroline says (con Emmanuel Seigner as Caroline), soprattutto se nel vostro intimo regnano pulsioni masochistiche e sapete quanto il dolore dei sentimenti sia una delle forme d’amore più pure e quello del corpo una delle forme di piacere più potenti. Immaginatevi a Berlino (città divisa, tra il buio e la luce di emozioni contrastanti) se non ci siete mai stati, a vagare per le strade in cerca di qualche droga, con pensieri artistici di ambiguità sessuale e astinenza e una malinconia splendente e dolce nel cuore per ciò che è andato e scomparso e non potrà tornare. Scriverete i vostri versi dove capita, su una panchina, in una bar, nell’angolo decadente di qualche appartamento sfitto, nel cesso di una stazione in attesa della prossima dose d’eroina o botta di speed. 

Ero al cineclub del gruppo anarchico Bakunin, a Garbatella e come al solito all’effetto delle immagini si aggiungeva quello dei bicchieri di birra e in alcuni momenti il volto di Lou Reed diventava una tragica maschera emotiva, sui cui la vita aveva lasciato i suoi segni indelebili e c’era una tristezza nel suo sguardo, come se stesse rivivendo quei momenti mentre li stava cantando e non so, ma i miei respiri hanno iniziato a rallentare e mi sono ritrovato da qualche parte in quel mondo, da qualche parte a Berlino, dove ho trovato la gioia e il dolore in stanze con specchi e lenzuola nere e catene che scendevano dal soffitto e ricevuto sostanze dalle mani di uomini sconosciuti e quei giorni, ora, sono diventati memoria, perché lo scrittore fosse libero di portarne il ricordo, perché il ricordo divenisse un flusso di parole e con esse arrivasse tutta la bellezza di ogni attimo che abbiamo lasciato andare via, lontano, ormai libero dal presente, perché fosse quella distanza a raccontarci il motivo e la poesia del nostro perenne abbandono.


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