Porcile, Pier Paolo Pasolini, 1969

 

Visioni antropofaghe sulle pendici di un vulcano, forze primitive e telluriche, un attimo di irraggiungibile poesia, Pierre Clementi con gli occhi lucidi che ripete, Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana e tremo di gioia - Violenze e torture, corpi smembrati e divorati, prefigurazioni visive di Salò, anche se la nudità ancora non è dominio e sottomissione e sono solo i maiali l’oggetto del desiderio di una sessualità deviata, in quel teatro della perversioni che rimane fuori campo e narrato solo alla fine da Maracchione, il personaggio interpretato da Ninetto Davoli, con il suo volto angelico e chiaro, in una sala di una villa, in cui è stata messa in scena in chiave grottesca (Ferreri, Tognazzi, Lionello) la coscienza putrida dei padri e della società che hanno costruito - Julian (Jean Pierre Léaud) e Ida parlano d’amore e rivolta come se stessero recitando una filastrocca, per spezzare i dogmatismi dell’ideologia e anche una certa pedanteria didascalica, questi sono i figli e questo è il loro mondo - Ci si muove in uno spazio filmico criptico e misterioso che alterna aperture naturali, con piani lunghi di scenari desolati e brulli a composizioni geometriche degli esterni della ville e degli interni delle stanze, poi momenti in cui la macchina a mano si immerge nella realtà allucinatoria di alcune sequenze ed altri con primi piani fissi in cui i volti diventano l’emblema di una soggettività utilizzata per lo svolgimento di una tesi politica, in cui il pensiero del regista diventa critica e sfida intellettuale - I borghesi son tutti dei porci, avrebbe cantato un paio di anni più tardi Gaber, mentre Pierre Clementi lo ritroveremo sempre nel 1969 in un’altra pellicola similare per difficoltà di comprensione e complessità del racconto, ma con un titolo che sembra continuare la provocatoria parabola pasoliniana, I cannibali, di Liliana Cavani.
 

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