Miami Vice, Michael Mann, 2006

 


C’è un momento in cui Sonny (Colin Farrell) guarda fuori da una vetrata e vede l’oceano, pochi secondi in cui il suo sguardo sembra andare oltre il presente, verso quella che sarà o forse avrebbe potuto essere la sua vita. Poi si torna nel mezzo delle cose, in un flusso narrativo che non ammette pause perché tutto continui a scorrere, a passare. Non è un caso che l’elemento acquatico sia così predominante, attraversato da offshore che trasportano carichi di droga o da Sonny e Isabella (Gong Li) mente sfrecciano verso la Bodeguita del Medio a La Havana per bersi un mojito e ballare, sedursi e scoprirsi e infine scopare e amarsi. I corpi che si svelano in frammenti di intimità, sotto la doccia, fra le lenzuola, dettagli della pelle, delle dita, immagini quasi tattili che Michael Mann sa cogliere in una maniera così unica, time is luck dice Isabella a Sonny dimenticandosi così del denaro e degli affari e del mondo di cui fanno parte - Morte e gelosia e inganni perché c’è un cuore che continua a pulsare, a palpitare dentro di noi e a fare male, a volte - Ancora i corpi che danzano in un club sulle note di Numb/Encore, Sinnerman, Strict Machine mentre Rico (Jamie Foxx) e Sonny sono in missione per poi essere catturati da altri eventi che corrono veloci come la Ferrari da dove sta telefonando Alonzo Stevens (John Hawkes), nel caotico timore che tutto sia perduto e che la sua copertura possa cadere da un momento all’altro. Eppure nessuno sta giocando, anche se si recitano ruoli e si inventano identità e si creano personaggi e si incontrano boss della droga come fossero apparizioni mistiche dai nomi biblici, Arcàngel de Jesùs Montoya (Luis Tosar) e lo spazio filmico diventa un insieme di punti sparsi sulla mappa del mondo (e dello schermo), collegati ad alta velocità da aerei, navi, automobili o dalla rete di network globali, telefoni cellulari, satelliti, computer, tutto è connesso nel cinema di Michael Mann, dove ogni singola inquadratura è emanazione della sua presenza registica che ci rapisce lo sguardo e ci fa riunificare la frammentazione del tempo (una miriade di attimi in continua e ipnotica successione) nell’esperienza totalizzante dell’opera cinematografica - Per poi tornare un’altra volta nel ritmo incalzante degli eventi, nell’iperrealismo delle sparatorie, in quello del suono dei proiettili - Poetiche ad alta definizione della notte, blues metropolitani, palme che oscillano nel vento (sulla musica dei Mogwai), gli ultimi abbracci, gli ultimi sguardi, quello che siamo destinati a perdere per il semplice fatto che lo abbiamo creduto nostro - Le confessioni degli amanti, i ricordi di un padre musicista, Allman Brothers, Lynyrd Skynyd, finito poi a guidare camion, quelli di una madre morta troppo giovane, bellissima e sola nella foto di un matrimonio - Il sesso in macchina, perché il desiderio unisce e ci spoglia e ci fa conoscere, hola chico, hola chica - Miami Vice ha un cuore che palpita sotto il turbinio delle sequenze d’azione, qualcosa di umano che non può essere tenuto nascosto, oltre la trama e l’intreccio e il tecnicismo fuorviante dei dialoghi tra poliziotti o di quelli da copione fra trafficanti e infiltrati, non bastano le sparatorie e gli inseguimenti e lo splendore degli scenari naturali a portarci fuori strada, rimaniamo come Colin Farrell a guardare per un attimo oltre quella vetrata, senza pensare, in una illuminazione momentanea, un satori improvviso, in cui la comprensione di quello che siamo non viene dal cervello ma dal cuore, da ciò sente e freme e ci fa vivere.


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