The room next door, Pedro Almodòvar, 2024
Pedro Almodòvar si firma solo Almodòvar, nei titoli di testa, quasi a dirci che basterebbe questo piccolo gesto di vanità autoriale a ricordarci quello che troveremo in un suo film. E infatti gli elementi ci sono tutti: il melò, l’uso espressivo dei colori, gli universi femminili, la leggerezza con la quale riesce a trattare temi profondi. Forse c’è meno ironia e meno spirito dissacratorio, ma quello che conta sembra essere l’eleganza e l’essenzialità della regia, quasi interamente giocata sull’uso del primo piano, in cui il volto delle attrici protagoniste (Tilda Swinton e Julianne Moore) diventa strumento figurativo di scoperta psicologica ed emotiva delle loro vite e delle loro storie.
C’è un quadro di Hopper nella casa dove le due donne si ritrovano nell’attesa che una di loro incontri la morte, una copia, certo, perché l’originale sarebbe impossibile da tenere in casa. Ma una copia così perfetta da sembrare vera.
Ecco, anche The room next door è così, una copia impeccabile del cinema di Pedro Almodòvar. Dal quale però la vitalità propria delle sue pellicole più famose sembra essere stata distillata e rarefatta, forse perché la presenza della morte doveva predominare e trasformarsi in quella lenta attesa che pervade tutta la pellicola. Almodòvar copia il suo cinema e lo inserisce in una nuova cornice scenica (gli Stati Uniti) e linguistica (l’inglese), in cui attrici totalmente lontane dalla calda femminilità mediterranea delle sue storiche muse (Carmen Maura, Rossy de Palma, Cecilia Roth, Penelope Cruz), cioè l’androgina e algida Tilda Swinton e una languida e meravigliosa Julianne Moore che meglio sembra saper far risuonare l’anima del melodramma nei suoi sguardi e nella sua presenza, si incontrano e si parlano, ricordando e svelandosi.
Tratto da un romanzo di Sidney Nunez, che appare più come un contenitore narrativo da modellare attraverso il suo sguardo da regista, Almodòvar affronta il tema dell’eutanasia in una maniera che gli permette di (ri)dipingere le tinte del melodramma in un’atmosfera sospesa e dilatata, soprattuto quando l’azione, minima e calibrata, si sposta all’interno degli spazi architettonici di una casa volutamente impeccabile e lussuosa, dove i giorni si susseguono nella semplicità di piccoli gesti e il tempo rimasto si riempie di quel che la vita ancora sa offrire, liberata dal giogo delle aspettative, fra momenti di paura e complicità, dolcezza e malinconia.
Esterno alle dinamiche delle due donne, entrambe scrittrici (una di libri, l’altra giornalista di guerra), anche se in passato era stato l’amante di tutte e due, appare John Turturro che fa entrare all’interno dell’amniotica dimensione discorsiva e filmica creata dai dialoghi fra le protagoniste, opinioni sul cambiamento climatico e critiche al sistema americano e infine la presenza di un poliziotto (fanatico religioso) solleva i giusti dubbi sulle posizioni della chiesa nei riguardi della morte assistita o del suicidio. Però non è questo ad interessarci, come non lo sono i momenti di potenziale incongruità della sceneggiatura (quando Martha si accorge di essersi dimentica la pillola del suicidio). Le promesse di Almodovar, come regista, non vengono tradite e si compie il miracolo della resurrezione (la figlia di Martha) e della pacificazione del cuore. Il suo cinema continua così a vivere. Fosse anche una copia sempre identica a ciò che Almodòvar ama di più e sa trasformare, come pochi altri, in immagini e poesia.
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