Parthenope, Paolo Sorrentino, 2024



Ritorniamo sulla bellezza (vuota, epidermica, patinata) e quale orrore in tutto ciò (compresa la solita citazione iniziale di Céline), quale orrore nella giovinezza, nei corpi tonici e abbronzati, nei rallentamenti da rotocalco di azioni inutili, tese ad afferrare lo scorrere del tempo, quell’attimo già passato, quella vanità femminile così sfibrante. 

L’orrore di un film che gira intorno a un corpo come fosse simbolo di una città, una psiche marina e mutevole che ne vorrebbe mostrare i molteplici aspetti, i tanti volti, le molte anime, l’orrore di essere spettatori, di stare a guardare senza neanche sapere più perché, giusto il nome di un regista che da qualche parte ci ricordavamo di aver apprezzato, mentre il senso di fastidio cresce con il fluire delle sequenze e striscia sottopelle e con esso la certezza che quello che una volta era stile ora non sia altro che reiterata maniera.

Paesaggi, squarci, segreti, misteri, lacerazioni interiori, colpe, tutti frammenti di un mosaico narrativo, di un quadro che imprigioni lo sguardo, così che si possa ammirarne la superficie e trasformare la cornice nei significati che desideriamo darle, al cui interno ci si potrebbe invaghire dei riflessi, di quei doppi illusori che sono il cinema stesso, la sua speculazione, il suo abuso narcisistico, estetico, che non arriverà mai a un’estasi ma solo a una stati dei sensi, ormai assuefatti a un tipo di immagine, di inquadratura che volendo ad ogni costo meravigliare o stupire finisce solo per essere compiaciuta di sé stessa, del proprio onanistico manifestarsi.

Elefantiasi emotive, aule e corridoi di università in cui il sapere sopperisce al suono di superflue supposizioni, il fumo delle sigarette, fumate ovunque, lo splendore della buona società, la tetraggine dei quartieri spagnoli (e se fosse stato il contrario?), le feste, i festini, i fusti, gli accoppiamenti rituali, le carrozze, i tesori, il mare, gli amanti, la memoria.

Almeno due personaggi e due attori emergono da questo p(i)attume, Gary Oldman nei panni dello scrittore alcolizzato John Cheever e Peppe Lanzetta in quelli succinti del cardinale Tesorone, seduttore seriale con il suo ventre gonfio, slip e capezza d’oro al collo, sospeso tra carnalità e manipolazione del verbo.

Come Roma nella Grande Bellezza anche Napoli in Parthenope è una città che esiste solo nell’obiettivo della macchina da presa di Sorrentino, possiamo abbandonarci a quel loro apparire, al loro essere ridotte in immagini, rimanere a vedere cosa succede eppure essere con la mente e il cuore già altrove.

Non vorremmo citare Paul Nizan un’ennesima volta, ma forse in questa occasione, a discapito dell’avvenenza di Celeste della Porta, crediamo proprio che abbia ragione.


 

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