Alien, Ridley Scott, 1979

 



Guglie gotiche come forme arcaiche di oscura ingegneria spaziale. Un equipaggio addormentato in un collettivo sonno profondo. Bianchi risvegli come ennesime (ri)nascite. I primi respiri. Lenti ritorni alle normali funzioni vitali.

Dinamiche di gruppo in interni claustrofobici, fra asfissianti e cupe geometrie visive,  le gocce di pioggia a rigare il volto sudato di Herry Dean Stanton fra enormi macchinari e catene, matrice  immaginativa di quello che sarà il landscape visivo della L.A. di Blade Runner, discussioni circolari sui diritti dei lavoratori, echi spaziali delle loro precarie condizioni, disumana egemonia aziendale, stellari subbugli psicologici, il tradimento robotico di una coscienza non umana, ogni vita può essere sacrificata in nome del capitale, sul pianeta Terra come nello spazio profondo.

In Utero metallizzato, opaco, cosmico. Mother: coscienza elettronica e oracolare, camera delle comunicazioni verbali dalle pareti lampeggianti. Outside world: oscure cavità inesplorate, foschie luminose. Alien: presenza estranea ed esterna, simbolo di un istinto predatore e riproduttivo, rappresentazione atavica di ancestrali paure femminili.

Il film di Ridley Scott si dischiude a molteplici interpretazioni come l’uovo che ne racchiude il vero protagonista. Incubo narrativo dark incentrato sulla progressiva eliminazione dei personaggi Alien è anche una spaventosa metafora della maternità, in una sanguinosa e costante dialettica fra il dentro (il corpo, l’astronave) e il fuori (lo spazio, i pianeti). Il Nostromo è in transito, il viaggio di ritorno amniotico di un equipaggio, i cui membri, una volta usciti dal loro limbo dei dormienti, si ritroveranno ad affrontare la gestazione e i comportamenti primordiali e divoranti di una razza ai limiti della perfezione predatoria. Alien è anche il cinema stesso nella sua capacità di fagocitare attori e storie per tenersi in vita e poi rigenerarsi tramite la strategia dei sequels

Parti sanguinosi e violenti, viscere vorticanti, la duplice caccia, il corpo androgino di Sigourney Weaver, l’universo come minaccioso mistero, il nemico adesso è interiore, si nutre dell’organismo umano, protuberanze falliche come bocche affamate, le architetture ibride permeate di oblio, segnali di allerta, richieste di soccorso, la paranoia strisciante alimentata dalla paura, l’inestinguibile spinta alla sopravvivenza, uccidere il diverso, anche se quella oscura metà si cela ormai dentro di noi.

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