Viridiana, Luis Buñuel, 1961
C’è la presenza di un feticismo delizioso fra le immagini di Viridiana. Un paio di scarpe laccate, un corsetto, delle gambe nude. E di oggetti che potrebbero essere il passatempo favorito di un masochista: una corona di spine, dei chiodi, un martello, un enorme crocifisso. E di simbolismi vari disseminati per il resto della pellicola. La mungitura (milking), per chi se ne intende, è una pratica sublime.
Buñuel scardina con estrema intelligenza alcuni valori della morale cristiana (la castità, il sacrificarsi al prossimo) e lo fa soprattutto attraverso l’arrivo di un gruppo di miserabili che rappresentano i pregi e le schifezze ma anche la volgare vitalità della natura umana. Allergici al lavoro (sia per menomazioni fisiche che, soprattutto, per mancanza di volontà) e dediti a una preghiera di pura apparenza (la sequenza con montaggio alternato in cui recitano l’angelus e i lavoratori faticano) i miserabili approfitteranno di prendere tutto quello che possono assecondando Viridiana nel suo desiderio di santità.
Ridicolizzando l’iconografia sacra dell’ultima cena il regista ci ricorda di quello di cui siamo realmente fatti, carne che vuole mangiare, bere e scopare e oltre questi bisogni primari c’è solo l’ipocrisia borghese che nasconde dietro alle belle facce, ai soldi e ai vestiti puliti gli stessi identici desideri. E lo capirà anche Veridiana che finito il suo periodo di fervore religioso si guarderà in uno specchio rotto concedendosi di cedere alla propria femminilità, per sedurre o più semplicemente per scoprire cosa i sensi possano svelare e donare. E chissà che una partita a carte, non si trasformi, una volta che la porta della stanza del cugino si chiuda, in un ménage a trois.
Sa bene Buñuel quali siano le pulsioni più forti del nostro essere e di come la religione cattolica finisca per negare il corpo in favore di uno spirito che lo trascenda, senza mai riuscirci (naturalmente), lasciando così i fedeli imprigionati in una serie di dogmi e regole che, oggi più di ieri, non hanno più nessun senso. La vita vera è da un’altra parte, con le sue gioie e le sue miserie, con le sue bassezze e le sue meschinità e dello spirito quando si ha fame o si hanno troppi soldi a chi gliene importa?
L’accusa di blasfemia è forse il riconoscimento più importante ricevuto da questo film, al di là della Palma d’oro di Cannes nel ’61.
Grandiosi e che dio (o chi per lui) li abbia in gloria, Francisco Rabal, Fernando Rey e José Calvo.
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