Blackhat, Michael Mann, 2015

 


Esiste un labirinto informatico criptico, inaccessibile per chi non ne ha le elettroniche e quasi esoteriche conoscenze, fatto di dati, numeri, codici, un universo in movimento, luminoso, pulsante che si manifesta in circuiti di connessioni ipertecnologiche, comandate da un linguaggio alieno, sostanzialmente indecifrabile, del quale alcuni uomini, gli hacker, hanno il controllo e così possono acquisire potere, come gli sciamani di un tempo, tramite l’utilizzo di una tastiera, un laptop, un telefono cellulare. 

Tutto in questo mondo si muove in maniera veloce ed è come vivere in una allucinazione comune e collettiva in cui il reale non è altro che una apparentemente  tangibile presenza di tutti quegli elementi che è stata la nostra mente a creare. In forme quasi astratte di pensiero, di consapevolezza zen dell’esistenza, vanno prese decisioni, fatte scelte, assunti rischi, modellati piani di azione. Ad un flusso simile a quello dello scorrere dei dati diventa il ritmo delle immagini in questo film di Michael Mann. Immersione totale nel cinema, senza un attimo di tregua. Poche fulgide pause che ci fanno meravigliare di quello che di umano (r)esiste fra le luci ipnotiche e i neon notturni delle metropoli, cioè l’amore. Quando i corpi si uniscono e la pelle freme e il cuore pulsa. Frammenti visivi di un desiderio, del nascere di una passione. Poi si è scaraventati in una corsa di soluzioni e situazioni esplosive in cui tutto si intreccia, si aggroviglia, si trasforma. Fusioni all’interno di reattori nucleari, crolli della borsa, spostamenti di ingenti quantità di denaro da conti bancari, piani di devastazione ambientale in nome dell’arricchimento personale. Si gioca, si scommette, si va contro la morte in una parata dove si scivola l’uno sull’altro. Le armi. I colpi. L’iperreaslismo dei suoni dei proiettili che esplodono, delle operazioni paramilitari. Il groviglio della burocrazia, degli ordini, la presenza di ferite ancora aperte, di lutti non ancora elaborati. Le morti improvvise in attentati dinamitardi. Michael Mann compone un’altra sinfonia urbana, seducente e ammaliante, permeata di  istanti filmici che sembrano come satori, brevi momenti di illuminazione, uno sguardo, un gesto, un dettaglio, un respiro. Poi l’azione continua, come fosse una forza vitale impossibile da fermare, in una moltitudine di fotogrammi che compongono il mosaico di una storia, solo una fra tante, non che abbia importanza, è quello che trascende la vista ciò che realmente conta in questo cinema di percezione assoluta.


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