Paradise:Love, Ulrich Seidl, 2012


Un gruppo di idioti (per citare Von Trier) si diverte su delle macchine a scontro. Una donna li osserva, poi torna a casa. Dentro cubicoli dalle apparenze di una stanza da letto, di un bagno, di una cucina. La donna parla con la figlia, poi prepara le valigie. Poi parte per il Kenya. Piani fissi della macchina da presa e composizioni geometriche di interni ed esterni a comporre l’idea di regia di Ulrich Seidl, lo spazio filmico è circoscritto, chiuso, deliberatamente scelto e mostrato.

Poi il paradiso. Le spiagge e il mare e i corpi svaccati e sfatti di mature signore austriache e tedesche. Sono lì per provare le gioie e il brivido del turismo sessuale. Giovani ragazzi africani sciamano come mosche intorno a loro, sia per vendere qualche cianfrusaglia, sia per diventare oggetto del loro piacere. L’avvicinarsi fra le due culture, quella africana e quella europea, avviene su un piano strettamente fisico. Le donne ricercano forme di godimento che sperano possano superare la mera presenza di un bel corpo per ottenere qualcosa che sappia penetrare i loro occhi e arrivare al cuore. Vana speranza. Anche un cazzo di grosse dimensione alla fine può andare bene. Gli uomini africani offrono amore, usano il linguaggio (inglese e poche parole di tedesco) come una forma di ipnosi verbale, per sedurre le donne e portarle nelle loro stanze. Gli incontri sessuali sono di per se imbarazzanti, per lo spettatore (voyeur non invitato), perché privi di una intimità emozionale. Si cerca una vicinanza che non è certo il sesso a poter creare. Lo sguardo di Seidl è impassibile, algido, oggettivo. Il suo occhio registra meccanicamente quello che accade, senza mai perdere però il controllo dell’inquadratura, dei suoi limiti, del suo perimetro. Quella maschile è una forma di prostituzione indiretta, i soldi si chiedono dopo, non per sé stessi, ma per  i  membri bisognosi della propria famiglia (o per amici, o per scuole, tanto per variare). La moralità di queste vicende è quella dettata dal capitalismo, si vende ciò che si possiede (un corpo, se non si ha di più), si compra quello che si vuole. L’amore rimane fuori questione. Se ne può imitare la forma ma non giungerne all’essenza. Paradisi (artificiali?) i cui confini sono corde sulla spiaggia, barriere per veicoli, le mura delle stanze. Dentro lo spazio del villaggio vacanze si è ancora in Europa, fuori è l’Africa. Con gli uomini che attendono immobili su una spiaggia, come simulacri di un mondo perduto o si muovono come mosche sulle moto, ronzando a caccia della preda. Le turiste però non vogliono veramente sapere cosa ci sia fuori, come si viva al di là della propria comfort zone e se si arrischiano nel lasciarla è solo per divertimento o per uno squallido senso di avventura. L’uomo diventa finalmente oggetto, danza, si esibisce, ostenta il suo fallo (con o senza erezione), le donne ridono, toccano, provano, consumano. E’ questo l’Eden? O solo la sua edonistica imitazione? La risposta sono le lacrime di Helga, mentre piange, sfiorando infine oltre la propria pelle la sua stessa umanità o quello che ne è rimasto. Paradise:Lost. 

 

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