Storie di ordinaria follia, Marco Ferreri, 1981

 


Storie di ordinaria follia non è un film su Bukowski, è ispirato da alcuni racconti presenti nell’omonimo libro ed ha un personaggio interpretato da Ben Gazzarra che assomiglia nei modi allo scrittore americano. Detto questo si può vedere la pellicola senza il bisogno di fare paragoni con il vecchio Hank, sarebbe ingiusto per lui, per Gazzarra e per Ferreri. Stile. Il regista ci porta in quelle strade e in quella vita così tante volte descritte da Bukowski, una galleria di perdenti, ubriaconi, disoccupati, papponi, donne pazze, miserabili e derelitti. Dove forse risiede l’essenza stessa dell’esistenza contemporanea, non sporcata dalle ipocrisie del Sogno Americano. Charles Serking (Ben Gazzarra) partecipa a reading, va nei bar, tenta di rimorchiare una donna alla fermata di un autobus, si ubriaca, segue i suoi istinti sessuali perché sa bene che sono gli unici istinti reali, gli altri sono tutte delle finzioni: il successo, il denaro, la fama, il potere. Anche se a volte sono quest’ultimi a farti avere un pezzo di fica.

C’è poesia in alcune sequenze e dolcezza, a volte, negli occhi di Gazzarra, che tende a nascondere dietro le lenti scure degli occhiali, non solo perché la luce del sole può essere devastante nei doposbronza, ma anche per celare quell’umanità, quella delicatezza che anche lo stesso Bukoswki teneva ben al sicuro dietro la volgarità e la brutalità di quasi tutte le sue storie. Tante volte ho pensato a lui anche come a un vero e proprio scrittore proletario, per i lavori che ha svolto e per aver raccontato quello che accedeva lì, per le strade, nella mischia, fra quelli che non possedevano nulla, fra gli sfruttati e i disadattati della società americana. 

Poi c’è un incontro con Tess, che ha il corpo magico e gli occhi, gli occhi di Ornella Muti, uno sguardo che possiede qualcosa di intimo e animalesco capace di farti sprofondare in un amore senza uscita, nell’esigenza di una fisicità che rasenta lo smarrimento dei sensi. E la violenza nel profanare il proprio corpo, il masochismo intrinseco nei gesti, la sofferenza di chi la guarda, perché non è facile accettare l’autolesionismo di qualcuno che si ama. Le stanza dalle pareti blu di Charles, la macchina da scrivere, il frigorifero. Piccole camere nelle quali rifugiarsi a battere le dita sui tasti. Un letto, un bagno. Non avrei mai pensato che questa vita fosse possibile e invece lo era. Il mare, i gabbiani, gli abbracci, un altro corpo, un’altra erezione, un’altra illusione. E così passiamo di donna in donna, alla ricerca di quel mistero e di quel segreto, che attrae e respinge, attrae e respinge. E le scopate, certo e il desiderio e la follia e la violenza e il piacere e l’abbandono, quello, dopo ogni orgasmo. Poi si ricomincia. Per le strade, nei bar, davanti alla macchina da scrivere. Storie di ordinaria follia segue il ritmo del suo protagonista, del suo vagare, del suo smarrirsi, del sua aggrapparsi a se stesso. In quelle scintille d’amore e di sofferenza, che ancora bruciano sulla pelle, sulle onde del mare, quando rimango a pensarti e a chiedermi dove se ne siano andati a finire gli anni e le parole e tutto quello che non ho mai saputo dirti in questa vita che diventa morte, in questa morte che è da sempre tutto quello che possediamo.


Scrive Bukowski su questo film, nel suo racconto Pazzo abbastanza - “Ci buttammo dentro. I nostri posteranno pronti. Ci sedemmo e io infilai la mano nella busta e stappai la bottiglia di rosso. Poi si fece buio e cominciò il film. Ben Garabaldi partecipava a una lettura di poesia. Stava leggendo una poesia. Aveva addosso delle ombre scure. Era un brutto inizio. Man mano che andava avanti il film si rivelava molto peggiore di quel che avevo immaginato. Garibaldi recitava la sua parte come temevo che avrebbe fatto: moscio e tremendamente normale. Più si andava avanti e peggio era. Garibaldi continuava a poppare dalla bottiglia di vino ma non beveva come uno che ne ha bisogno, e non si ubriacava mai. Los dopo del vino è che uno si ubriaca e così dimentica. Beh, una cosa era riuscito a dimenticarla, Garibaldi: si era dimenticato di recitare. Poi lui incontra Eva Mutton in un bar. Io sono stato in centinaia di bar ma non ho mai visto una donna come quella dentro un bar. No era il tipo che va al bar, semplicemente. Più che altro pareva una modella con un pensiero per la testa e incapace di aprir bocca.

Il film diventò così brutto che non riuscii più a trattenermi. Cominciai a urlare contro gli attori, e a dar loro degli ordini. Però non obbedivano. Io continuai a provarci.

Alla fine un tizio mi gridò contro: <<Ma perché cazzo non te ne stai zitto?>>.

<<Io sono Chinaski!>> gli risposi urlando <<se c’è qualcuno che ha il diritto di strillare contro questo film quello sono io!>>

Il film andava avanti e Garibaldi continuava a non ubriacarsi mai. Alla fine lui sta sulla spiaggia e si stringe alle gambe di questa minorenne tutta alla moda e in costume da bagno. Le onde si frangono dietro di loro e il vento passa fra i capelli di Garibaldi. Lui comincia a recitare una poesia sulla bomba atomica che io avevo scritto un paio di decenni prima. Va avanti, e dice quanto siamo stati spietati e stupidi a creare il mostro atomico. Poi deduce che dobbiamo aver già fatto un’altra volta a noi stessi la stessa cosa in un passatoia tempo dimenticato, che più di una volta abbiamo fatto andare in vacca le nostre possibilità: ci sarà mai una volta che impareremo? Poi alza gli occhi sulle gambe della ragazza tra le onde che si spezzano e i gabbiani che svolazzano.

<<Ma buttatelo al cesso!>> gridai, e il film terminò fra scroscianti applausi.”


Commenti

Post popolari in questo blog

Logan, James Mangold, 2017

Mullholand Drive, David Lynch, 2001

Il ragazzo e l'airone, Hayao Miyazaki, 2023