Todo Modo, Elio Petri, 1976

 



Todo modo comincia con una epidemia, profetica intuizione. Poi si entra nell’albergo/eremo di Zafer e nei sotterranei della psiche e delle logiche di chi comanda ed è asservito a Dio. Un incipit del tutto assente nel romanzo di Leonardo Sciascia, il cui protagonista e narratore, un pittore (scomparso nella pellicola di Petri), arrivava all’albergo quasi per caso, durante un suo girovagare automobilistico. E dell’opera dello scrittore siciliano rimangono il plot, alcuni personaggi e il sottotesto quasi metafisico (in assenza di moventi reali per le uccisioni che seguiranno) delle dinamiche interne di una classe politica evasiva, fuggente e calcolatrice (quella democristiana) mentre si perde il gusto intellettuale e citazionista del dialogo (sopratutto fra il pittore/narratore e Don Gaetano) e quell’abilità affabulatoria presente nei meandri della parola scritta.

Un gruppo di uomini importanti (politici, ministri, segretari, banchieri, industriali) si ritrova nell’albergo/eremo di Zafer per compiere alcuni esercizi spirituali seguendo l’esempio di quelli istituiti da Ignazio da Loyola. C’è fra di loro un viscido e astuto individuo, chiamato il Presidente (interpretato da Gian Maria Volontè, modellato su Aldo Moro) in compagnia della moglie (Mariangela Melato, non presente nel romanzo), con la quale assolve i propri esercizi spirituali sempre in bilico fra pulsioni erotiche represse e piacere del peccato. Personaggio servizievole e accomodante all’occasione, loquace nell’intrallazzo interessato, avido di comando. Poi l’onorevole Coltrano, nei cui panni troviamo un sorprendente Cicco Ingrassia, che dà vita a un personaggio perversamente morale, nevrotico, instabile, che oscilla fra pulsioni di castità, astinenza, masochismo e sottomissione. Poi un sacerdote, Don Gaetano, un tuonante e punitivo Mastroianni, che con i suoi sermoni cerca di attaccare i vizi stagnanti dei presenti in chiesa, in una fragorosa interpretazione che totalmente annienta la sottile ironia e la colta ambiguità del Don Gaetano letterario e poi Lui (Michel Piccoli, anch’egli assente nell’opera originale), cocainomane e serafico, volatile e misterioso emblema del potere.

In ambienti dal design postmoderno, con statue plastiche della passione e della viacrucis, fra stanze dall’arredamento essenziale e minimalista, si muovono i personaggi, intrecciando ambigue relazioni, nascondendosi e mostrandosi, attuando nei loro gesti e comportamenti quella laida condotta fra omertà e simulazione che era divenuta la norma fra tanti esponenti della DC e che sarà modello per molti politici a venire. Petri crea uno spazio di concreta costrizione visiva,  come già fossimo in una prigione, c’è tanto cemento, nei muri, nei pavimenti, quasi un’oppressione sullo sguardo, una presenza schiacciante sull’evolversi della storia - Il diavolo ha gli occhiali, gli stessi che porta Don Gaetano - Compito durissimo, dunque, per il sacerdote smuovere le coscienze, esortare alla confessione, richiamare chi si è perduto sulla dritta via.

Avvengono gli omicidi, come naturale manifestazione di quel marciume. Il primo durante un rosario che si sgrana al passo di una marcia forzata travestita da preghiera, in un’omelia orgiastica di penitenza di gruppo. Gli uomini a piedi scalzi, la recitazione dell’avemaria sempre più veloce, quasi fossimo in una trance sciamanica. Poi gli altri morti, delitti macabri, osceni, violenti. Petri si sgancia da Sciascia e trasforma il meccanismo delle sue indagini in una grottesca  e nera rappresentazione dell’avidità umana. Il linguaggio dei presenti retrocede fino a un gioco di sillabe infantili, quelle estrapolate dalle sigle di fantomatici enti per ricomporre la frase Todo modo para buscar la voluntad divina, dove l’unità massonica del crimine parlamentare organizzato si disintegra nelle cariche dei singoli, nel loro lavoro, cioè quello di mascherare da lecito ciò che invece è reato e più si abili in questa pratica e più ci si ritrova invischiati in quel mondo di grovigli asfissianti di favori e corruzione. La musica straniante e dissonante di Morricone (e doveva essere di Charles Mingus!) unita alle inquietanti e fobiche scenografie di Dante Ferretti aumenta il senso di spaesamento, caduta, strisciante paranoia e sinistra percezione di quello che vediamo. I corpi ammassati, in un degrado che neanche la fine terrena sembra assolvere ma anzi aumentare, diventano simulacri di una pestilenza etica, manichini di un teatro eucaristico assurdo e deviato, dove non esiste nessuna assoluzione per i vivi e nessuna redenzione per i morti. Todo modo si chiude con una esecuzione, una profetica annunciazione. Il Presidente viene ucciso dai colpi di una pistola. A sparargli è un’icona del cinema pasoliniano, popolare e proletario: Franco Citti. A distanza di due anni ci avrebbero poi pensato le Brigate Rosse a fare fuori l’allora vero presidente del consiglio, Onorevole Aldo Moro.   


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