I giorni cantati, Paolo Pietrangeli, 1979

 

Paolo Pietrangeli si mette letteralmente a nudo (e non è solo esibizionismo) in questo film fino al punto che non so quale sia lo scarto fra il personaggio interpretato e la sua reale persona. C’è un’anima inquieta, tormentata, nevrotica, infantile, sociopatica e artistica, quella di un uomo scontroso e fuori dagli schemi, fossero anche quelli libertari del sessantotto e del settantasette dopo. E lo spirito di quegli anni è ciò che scorre e unisce i molteplici frammenti di questa pellicola, insieme alle canzoni. Quelle di protesta, quelle del teatro, quelle del canzoniere, quelle dei cantautori - Guccini con il fiasco di vino, fuori da un bar vicino all’ex Mattatoio, che canta Canzone di notte n.2 è da brividi - Pientrangeli affronta la vita in bilico sulle proprie debolezze e ogni cosa è sempre sul punto di rompersi, di andare in frantumi. L’amore, la relazione sentimentale con la Melato, così asfissiante, nociva, dolorosa. Quell’inseguirsi, quel viversi accanto al di là delle differenze e dei colpi infitti: quel fuggire. Quel cercarsi. Fino a scomparire, a non aversi più nulla da dire. 

I compagni, la lotta, qualcosa che sarebbe potuto cambiare e in cui molti hanno creduto. E almeno un tentativo c’è stato. E al suo interno ci si è amati e ci si è avvolti di questi sogni e di queste utopie. I giorni cantati è un’opera incongrua, difettosa, imperfetta, lunga, didascalica, folle e proprio per questi  motivi ancora più unica e rara. E sincera. Si sente una voce al suo interno, che a volte diventa un grido di disperazione e altre una richiesta d’aiuto. O forse la semplice ammissione dei propri limiti, di ciò di cui si ha bisogno. Che ci sia qualcuno che parli la nostra lingua, che ci capisca, che colmi quella distanza che ci divide dagli altri e che scopra tutta la vita che ci portiamo dietro. Perché non ci siano muri a dividerci, fossero anche quelli che costruiamo noi stessi per difenderci e isolarci da chi abbiamo intorno - Appare Benigni, stralunato, nei corridoi di una scuola che sembra un ospedale psichiatrico - C’è un gruppo di ragazzi in una casa a disegnare i profili del proprio ego su una parete - Ci sono stati giorni in cui qualcuno ancora cantava l’insofferenza per ciò che non era giusto - O che si accendeva un sigaro, steso in una vasca, in attesa che tutto crollasse e che la solitudine tornasse a trovarci, eterna compagna di quella rivoluzione che è il cuore stesso a compiere. Dentro di esso e dentro di noi. 


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