Viva la muerte, Fernando Arrabal, 1971
Cinema panico, allucinatorio e visionario in cui tutto si intreccia, si stravolge, esplode, ferisce, soffoca, uccide. Violenza nelle immagini e immagini della violenza, con sequenze disturbanti, esibizioni di atrocità, attraverso un’estetica della tortura (sin dai titoli di testa realizzati da Topor) in cui si innesta una poetica sadomasochista che rivela e sonda gli abissi della psiche e della sessualità femminile. Quella della madre di Fando (forse il personaggio più complesso) la cui libido irrefrenabile, oggetto delle attenzioni del figlio, diventa la rappresentazione di un istinto sadico e perverso che gode della propria natura. La donna si presta ad ogni tipo di perversione: atti di defecazione, umiliazioni, castrazioni, punizioni. Manifesta visivamente le oscurità del subconscio, liberandosi da qualsiasi schema mentale in cui la donna sia stata rinchiusa per secoli, madre o aguzzina, non vi è differenza, è sempre presente lo stesso amore, la stessa torbida e asfissiante vicinanza, che si esprima con una carezza o con un pugno nei coglioni.
In questa surrealista scorribanda nei propri ricordi di infanzia Arrabal amalgama sogno e memoria, politica e creatività, anarchia e fascismo. Oltrepassando facili letture psicoanalitiche di incesti capovolti, proseguiamo lungo il cammino che va oltre la realtà per il gusto di distruggerla e manipolarla e allargarla in altre sfere di senso o di nonsenso assoluto. Sperimentalismi lisergici in videotape con alterazioni cromatiche e sfaldamenti della texture delle immagini, che sia il bambino a immaginare o lo stesso regista, non ci rimane che assistere o distogliere lo sguardo quando il disgusto è troppo evidente (negli squartamenti, nelle sequenze della sala operatoria). Che tutto questo diventi simbolo della mostruosità di ogni regime e di quello di Franco in particolare è troppo evidente, è cercare di capire cosa appartenga in profondità alla razza umana quello che ci interessa, questo essere che forse non è altro che bestia evoluta con tutto il suo labirinto di irrazionali desideri che lasciati alla stato brado si tramutano in un orgia di sangue, merda e violenza inarrestabile. Canzoni infantili danesi come contrappunto alla spudorata aggressività del visibile. Fustigazioni, accecamenti, tabù sfiorati, afferrati e confessati, mamma ti fa il bagnetto e anche se non si vede il cazzetto ti sta venendo duro, qualcuno parlava di Buñuel e dell’Ejzenstejn di Que viva Mexico nelle reminiscenze registiche, della presenza di Jodorowski nel susseguirsi alchemico di ogni scena che si trasforma nella seguente senza appigli razionali o con una logica altra da quella normale. Cinema estremo in una macabra meraviglia di atti(mi) impuri, rimandi iconografici al cristianesimo di passioni e redenzioni, fruste e cilici, un racconto sdoppiato di marionette e teatri infantili per ricostruire la storia di un padre scomparso, catturato e imprigionato, impazzito e forse morto. Cinema in viaggio verso i limiti di sé stesso per vedere cosa rimane quando tutto se ne va in frantumi, oltre i tagli di un montaggio straniante, al di là dello schermo che diventa specchio infranto di un male seducente, femmineo e viscerale.
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