Uccellacci e uccellini, Pier Paolo Pasolini, 1966
Si muovono in un limbo spaziale quanto temporale, Ninetto e Totò. Un non-luogo dove non c’è più differenza tra passato e presente, dove la campagna romana con i suoi ruderi sfuma in lontananza con le sagome del Colosseo Quadrato e della basilica di San Paolo. Un non-luogo dove i resti della cultura contadina (il cibo, le case, il linguaggio) si mischiano con le novità d’importazione americana (i balli, la musica) e con l’avanzare di un’urbanistica che con i suoi palazzoni distruggerà tutto quanto. Non solo inglobando fisicamente contadini e poveracci, quanto inserendoli in un ordine delle cose che ne eliminerà completamente la visione del mondo. Un non luogo dove il tempo si espande e si allarga in ottiche passate, dove si vede San Francesco che dice a due frati (interpretati sempre da Totò e Ninetto) di parlare agli uccelli. Per insegnare loro che l’amore di Dio va oltre i propri istinti e oltre le classi sociali. Un insegnamento d’amore e di uguaglianza. Una favola. O forse l’ut