The Bunny Game, Adam Rehmeier, 2012

 



Iperboli iperrealiste di violenze e perversioni. Torture porn in monocromo per allucinazioni falliche. Campionario visivo, disturbante, estremo, contorto, degradante di pratiche sadomasochistiche sul limite inquieto della psicosi omicida. Catene, bizzarre maschere, controllo della respirazione, marchi a fuoco sulla schiena, collare e guinzaglio, un coltello che scorre sulla pelle, crani rasati e poi esplosioni di follia, gas esilarante e altre droghe, strisce di cocaina sniffate a ritmi da vertigine adrenalinica - Una metropoli, i suoi percorsi, una prostituta, un cazzo ingoiato in gola fino a soffocare, un pompino per la via, una pisciata davanti a un cancello, poi le camminate con lo zaino in spalla, i clienti, le sigarette, la coca, il sesso spinto, le lacrime, le urla. Cosa succederebbe a non essere più noi ma qualcun altro e a ritrovarci in una città che non conosciamo? Incubi urbani in corpi che non ci appartengono. Un brutto incontro su un camion. Poi il deserto e ogni cosa che accade lontano dagli sguardi. Il tempo si annulla, iniziano i giochi. Una bambola di carne, le schegge impazzite di altre brutalità, altri stupri, altri tormenti. Un teatro delle crudeltà per menti malate. Il montaggio che ti stordisce, insieme alle grida e al ticchettio di una lama che batte i suoi colpi di inquietudine su superfici metalliche di speranze smarrite. Sempre nell’incubo si ritorna. Nei labirinti di ossessioni senza vie di uscita plausibili. L’uomo mette in scena lo spettacolo della sua istrionica sessualità selvaggia, lenta agonia usurpatrice, sadismo surrealista, esibizioni subliminali di pulsioni taglienti, queste le immagini di una deriva filmica senza controllo, un caleidoscopio dell’orrore in un bianco e nero angosciante e asfissiante, non c’è redenzione anche se il gioco finisce e nessuno che sappia dirci se quello che abbiamo visto è stato reale o solo una macabra finzione.


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