Uccellacci e uccellini, Pier Paolo Pasolini, 1966

 



Si muovono in un limbo spaziale quanto temporale, Ninetto e Totò. Un non-luogo dove non c’è più differenza tra passato e presente, dove la campagna romana con i suoi ruderi sfuma in lontananza con le sagome del Colosseo Quadrato e della basilica di San Paolo. Un non-luogo dove i resti della cultura contadina (il cibo, le case, il linguaggio) si mischiano con le novità d’importazione americana (i balli, la musica) e con l’avanzare di un’urbanistica che con i suoi palazzoni distruggerà tutto quanto. Non solo inglobando fisicamente contadini e poveracci, quanto inserendoli in un ordine delle cose che ne eliminerà completamente la visione del mondo.

Un non luogo dove il tempo si espande e si allarga in ottiche passate, dove si vede San Francesco che dice a due frati (interpretati sempre da Totò e Ninetto) di parlare agli uccelli. Per insegnare loro che l’amore di Dio va oltre i propri istinti e oltre le classi sociali. Un insegnamento d’amore e di uguaglianza. 

Una favola. O forse l’utopia di un ideologo.

Perché questo rappresenta il corvo che racconta questa storia a Totò e Ninetto. La voce di colui che vede il mondo attraverso la riflessione filosofica o politica. La visione dell’uomo che costruisce teorie e analizza il mondo attraverso di esse. Un intellettuale e il suo ruolo.

E si crea una rottura, una scissione. Tra le parole del corvo e la vita stessa. Una vita che si basa sugli istinti primari della nostra natura. Sul mangiare, sul bere, sul cacare, sullo scopare. Una vita semplice, che i semplici neanche si domandano cosa possa significare ma si limitano a vivere fino a quando ne hanno l’opportunità. Una vita che nessuna teoria può dunque analizzare o comprendere, anche se poi è inevitabile cercare di farlo.

Pasolini costruisce un film stratificato e denso di segni. Alcuni di essi (l'angelo, lo stesso de "Il vangelo secondo Matteo")  rafforzano la continua dialettica tra sacro e profano, tra cristianesimo e marxismo su cui si basa l’intera la pellicola. Altri (i cartelli con i km) aprono la storia verso suggestioni surreali. Altri ancora (i nomi delle vie) ci ricordano l’importanza del dialetto e della sua capacità di cogliere il reale.

Pasolini lavora molto sul linguaggio. Quello verbale, parlato, usato da Ninetto e Totò che rappresenta la cultura popolare, quello più amplio e ricco, parlato dal corvo che rappresenta la classe intellettuale (incapace però di raggiungere il popolo) e poi quello musicale che prende vita nella canzone iniziale e in alcuni degli stornelli che vengono cantati durante il film, che racchiude l’essenza stessa della narrazione e delle sue origini più antiche. 

Alcune dissertazioni del corvo potrebbero apparire ormai datate ma quello che sorprende per modernità è la scrittura filmica del regista. Ogni inquadratura è rigorosamente composta, splendido il lavoro sui primi piani, che siano della maschera grottesca e umana di Totò o dei volti popolari, e poi il continuo passaggio da un registro narrativo ad un altro, che dimostra quanto sia stato libero il regista nello scrivere il suo film. E quindi si passa da momenti di realismo ad altri di poesia. Dalla favola allegorica al documentario (i funerali di Togliatti). Da aperture surrealiste (il circo) alla riflessione storico-filosofica.

Alla fine il corvo verrà mangiato da Totò e Ninetto. La figura dell’intellettuale viene fagocitata da chi non sa più che farsene. Totò e Ninetto si allontanano verso il tramonto. Un aereo decolla.

Il cammino incomincia e il viaggio è già finito.



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