Das Boot, Wolfgang Petersen, 1981
Sbronze colossali prima di imbarcarsi, perché ubriacarsi è importante quando si è giovani o quando si è disillusi e le foto scattate sul ponte dell’U-Boot, il giorno della partenza, con il capitano che suggerisce che sarebbe stato meglio farle in quello del ritorno, quando le guance dei soldati non sarebbero state imberbi come adesso e loro sarebbero sembrati più vecchi e non solo dei ragazzi - E poi la claustrofobia asfissiante all’interno del sottomarino, con i suoi spazi ristretti e la continua vicinanza di qualcuno, i vari settori, la sala macchina, quella dove dormire, il tavolo degli ufficiali, la sala comando con il periscopio - Le tattiche d’azione, gli attacchi e le fughe, le attese, i giochi psicologi, continue strategie mentali, quelle del capitano in attimi di estatica consapevolezza, dove i suoi occhi sembrano perdersi in visioni trascendentali, del mare, dell’oceano, della guerra, di ciò che esiste al di fuori di quell’imbarcazione che appare e scompare - Verticalità dei movimenti esterni, immersione/emersione, orizzontalità dei movimenti interni, avanti/indietro, spostamenti veloci poppa/prua, sempre gli uni vicini agli altri ed è così che si forma una unità, un gruppo, in cui ognuno ha un suo ruolo, una sua mansione - E le ideologie sembrano così svanire, soprattutto quelle naziste, qualcuno ancora ci crede, qualcuno le reputa una ennesima sfilata di menzogne - Gli ordini, le dinamiche umane, i sentimenti, i primi piani che racchiudono volti in una estetica di espressioni archetipiche, i sorrisi, gli sguardi di intesa, quelli di sfida, magnifica, magnifica complicità maschile, la guerra nella sua straziante presenza e gli uomini nella loro epica lotta contro il destino, ognuno al suo posto con la dignità e il coraggio che la propria anima permette, una volta che si scende dentro se stessi si può solo scoprire cosa risieda sul fondo della propria essenza - Il fronteggiare la paura e la morte e la fine dei respiri e il continuare ad andare avanti, a non arrendersi, non nell’eroismo della retorica bellica ma in quello reale della lotta per la sopravvivenza e così Das Boot diviene qualcosa di più grande, quasi di simbolico nel suo tratteggiare il passaggio di alcuni ragazzi verso l’età adulta, senza che ne vengano meno gli scherzi, il cameratismo, il cazzeggio e le illusioni, fossero quelle di un amore scritto su carta da lettere o il sogno di andarsi a scopare infermiere in libera uscita e ancora il capitano che dirige, orchestra, sussurra, grida e comanda, che sublima l’orrore con la sua presenza sciamanica, per trasportare gli altri là dove in pochi possono arrivare, quel luogo in cui vita e morte si sfiorano costantemente e solo sapendo camminare in perfetto equilibrio su questo filo si può giungere ad un altro grado di consapevolezza e comprensione.
Wolfgang Petersen, nella versione director’s cut, ci rende partecipi di tutto questo, come se anche noi fossimo là dentro, condividendo le esperienze dei soldati, di cui dimentichiamo lo schieramento politico per immergerci con loro in quegli attimi agonizzanti che precedono le esplosioni, nel sentire nel cuore ciò che hanno dovuto provare, negli scoppi delle mine e dei siluri come in quello delle risate, in questo navigare attraverso il vuoto e la morte, per riemergere alla vita con tutte le miserie e le speranze che ci rendono umani.
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