Collateral, Michael Mann, 2004
Notte metropolitana e digitale con immagini ad alta definizione delle strade, dei palazzi, visuali dall’alto mentre un taxi scivola sull’asfalto, i grattacieli, i neon, i bagliori bluastri, grigi nel cielo, i riverberi arancioni delle luci - Incontri inaspettati all’interno del taxi, un’avvocatessa (Jada Pinkett Smith) che si dirige verso uno studio legale per preparare il suo discorso in tribunale e Max (Jamie Foxx), al volante, che le racconta il suo sogno, quello di aprire un sevizio di limousine che si trasformi in una esperienza per chi ci viaggia dentro, certo, i sogni di una vita e tutto il tempo che sprechiamo seguendo l’illusione che si realizzino, prima che sia troppo tardi e che ci rendiamo conto che non abbiamo fatto nulla - Vincent (Tom Cruise) sale sullo stesso taxi e convince Max a portarlo in giro per tutta la notte per svolgere certi suoi affari con alcuni clienti - Non ci mettono molto i corpi a cadere, i morti ammazzati ad aumentare e nelle pause tra un omicidio e l’altro Max e Vincent hanno il tempo di parlare, di conoscersi, di abbattere per un inaspettato momento le barriere della reciproca alienazione, chi chiuso in una macchina, chi nel proprio lavoro. Perché dopotutto Vincent non uccide perché è uno psicopatico, lo fa perché questo è questo il suo mestiere, è la maniera in cui si guadagna da vivere e di conseguenza agisce, con precisione, professionalità e velocità. Queste sono le leggi del mercato e bisogna rispettarle. E al contempo possiamo porci fuori di esse, lasciarci trasportare dal flusso della vita, delle cose, della narrazione e imparare a improvvisare, qui e ora, come in una jam di jazz spontaneo, in cui la musica che ascolti è imprevista anche se all’interno di standard ripetuti e così via, ancora durante la notte, nella solitudine delle strade, nel satori di un istante in cui un lupo attraversa la strada e partono le note degli Audioslave. Filosofie cosmiche racchiuse nella banalità di non sapere assolutamente dove stiamo andando, umanità smarrite in cerca di un gesto, una parola, un discorso che non sia simulato interesse, nell’indifferenza del mondo si può anche salire su una metropolitana, crepare e attendere ore prima che qualcuno si accorga che non ci sei più. Ci scivoliamo addosso come simulacri di pelle, come ombre di una realtà alterata e dispersa e oltre queste considerazioni il cinema immenso di Michael Mann, i sui violenti e bellissimi affreschi urbani di storie criminali, fatti di sangue e proiettili e uno stile ormai così puro nella sua immediata riconoscibilità da diventare estetica pulsante, ipnotica, magnifica nella serie di frammenti e inquadrature che la formano e compongono, una partitura visiva dello smarrimento esistenziale di fine millennio, racchiuso in una cornice, che si chiama regia, a cui tornare, dove ricomporre l’energia originaria di ogni creazione, in storie che divengano parti di un quadro incompleto, in cui tutto scorre e vibra e in cui ci immergiamo nell’attesa del prossimo fluido movimento.
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