The Zone of Interest, Jonathan Glazer, 2023

 


È un momentaneo blackout della memoria, quello da cui emergono rumori e poi suoni, un magma noise straniante, una zona della ragione dove il rimosso diventerà presente, come manifestazione non visibile di un passato che ancora sconvolge (i campi di sterminio) e verso il quale prende forma, ad autodifesa della vita di una famiglia tedesca (quella di Rudolf Höss), la messinscena della normalità del quotidiano (luce naturale e macchine da presa nascoste che spiano gli attori), attraverso una narrazione temporale frammentata e discontinua e il ripetersi di gesti e azioni: la cura del giardino, il crescere i figli, i momenti di svago, le faccende domestiche, il mandare avanti una casa o Auschwitz con la stessa fredda e distaccata efficienza. Non che questo accresca l’orrore, anzi lo inquadra in dinamiche semplici e riconoscibili, come sono quelle all’interno di una famiglia borghese o come possono essere le logiche di produzione e sviluppo, di miglioramento dei risultati, di capitalizzazione del rendimento, si pianifica la soluzione finale ad un tavolo come fosse l’incontro dei dirigenti di una azienda - Fugaci fughe oniriche in un monocromo angosciante, nell’allucinazione visiva di una percezione altra che possa riempire il vuoto emotivo creato dal fuori campo, intermezzi di ottica aliena, con lenti che ricercano quel calore umano che sembra essere svanito - Sono ancora i cani che abbaiano, le voci, gli spari, i gemiti, gli ordini, le grida che arrivano alle nostre orecchie a darci impressioni sinestetiche. Insieme agli odori che non possiamo sentire, immortalati dal colore dei dettagli di fiori, in un giardino estivo che sembra il paradiso. E poi l’inferno: il fumo che sale alto, bianco quello di treni, nero quello dei forni, la cenere dispersa nelle acque di un fiume, uniche tracce delle attività che si svolgono oltre il muro di recinzione del lager. La cui orizzontalità diventa anche quella dei carrelli laterali che seguono spostamenti e passaggi e segnano le coordinate spaziali del film. Zone di interesse dove adesso ci ritroviamo a vivere tutti, perché la pellicola di Jonathan Glazer, scarnificata ed essenziale, nitida, lucida e atroce, è metafora dell’oggi, in cui l’oscurarsi della vista equivale allo spegnere qualsiasi mezzo di comunicazione che ci rimandi immagini di tragedie contemporanee, di cui non vogliamo essere impotenti testimoni. E così a nulla servono le inquadrature di quello che resta dei campi di sterminio, avvolte dalla stessa inerme banalità, con gli addetti che puliscono le camere a gas e i forni. Quella testimonianza non ci ha salvato dal ripetersi dei genocidi. Sembra essere in questo riassorbimento di quanto successo durante il nazismo (ormai appunto Memoria) e nell’insensibilità odierna verso le tragedie che ancora succedono la vera catastrofe narrata dal film. Perché ognuno di noi continua a curare il proprio giardino e a svolgere le proprie attività, mentre teniamo l’orrore fuori dalle nostre vite, perché la coscienza non sia turbata e non emergano più i fantasmi del passato a infestare l’atroce illusione del presente.


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