The Last Movie, Dennis Hopper, 1971

 



Dopo l'incredibile successo commerciale di Easy Rider, Dennis Hopper ricevette quasi un milione di dollari e assoluta carta bianca per girare il suo film successivo. Partito per il Perù, sbarbato e con i capelli tagliati, tra vallate lussureggianti e scorte quasi illimitate di cocaina, marijuana e acidi, Hopper si ritrovò libero di fare quello che voleva e, a modo suo, lo fece. The Last Movie è anche un titolo profetico, a causa del suo assoluto fallimento al botteghino, D.H fu tenuto così alla larga dalla macchina da presa per quasi un decennio, ci tornerà dietro solo con Out of the Blue nel 1980.

L’idea intorno alla quale ruota la pellicola o quell’insieme di immagini sconnesse che la formeranno è di matrice metacinematografica. Una troupe sta girando un film western (il direttore è Samuel Fuller) e Hopper ne fa parte, specularmente gli abitanti del posto dove avvengono le riprese ricreano, con l’uso di canne intrecciate e corde, gli strumenti tecnici necessari alla realizzazione di una pellicola: macchina da presa, microfono con asta, luci. E anche loro iniziano così a fare un ipotetico film, una raffigurazione ludica (anche se alcuni non sanno distinguere fra violenza e simulazione, sul rapporto fra recitazione e realtà) di cosa significhi il cinema e il suo funzionamento. Intorno a questo nucleo narrativo e teorico gravita una baraonda sonora e visiva puramente sperimentale, dovuta alle selvagge scelte del montaggio, che occupò Hopper per quasi un anno (c’è un documentario al riguardo, The American Dreamer di L.M Kit Carson e Lawrence Schiller, del 1971) e al quale si dice abbia messo mano anche Alejandro Jodorowski, tanto per aggiungere follia alla follia. Un montaggio lisergico, dunque, nel senso che le connessioni fra le immagini non sono più causali o razionali ma puramente intuitive, l’inconscio (o forse le droghe) prendono il sopravvento, il film diventa mentale, espanso, pensieri e sensazioni si confondono e si amalgamano. Poi arrivano improvvisi momenti musicali (Kris Kristofferson era parte della crew), dettagli dei fiori e di paesaggi bucolici, scene di sesso nella natura e la presenza quasi onirica di altri attori e altri personaggi (Dean Stockwell, Russ Tamblyn, Tomas Milian in abiti talari, Peter Fonda in quelli di un giovane sceriffo) che sembrano trovarsi lì per caso e calarsi, in tutti i sensi, nell’orgia cinematografica nella quale si sono ritrovati. Poi il tasso alcolico sul set deve essere aumentato, girano bottiglie ovunque e non è chiaro se l’ebbrezza sia reale o simulata, anche se opterei per la prima e ci sono grasse risate e lunghe chiacchierate e alterchi e momenti di tristezza e una grande confusione che è come una nebbiolina purpurea di insensatezza davanti agli occhi. 

The Last Movie è il suicidio economico di un regista al suo secondo film ma anche il suo iconoclasta grido di libertà creativa, fino al punto di raggiungere una totale anarchia artistica ed espressiva. Pellicola più estrema di Easy Rider nella forma, con messaggi meno chiari, come se la sequenza dell’acido nel cimitero di New Orleans fosse diventata la cifra stilistica da seguire, in cui perdersi senza nemmeno cercare di ritrovarsi, dove tutto viene sabotato dall’interno, con tanto di scene mancanti e continui salti temporali ingiustificati, ci ritroviamo nella mente alterata di Hopper e nell’intima ricerca di nuove vie espressive, quelle proprie di un’epoca a cui guardare sempre con splendida malinconia e infinita ammirazione.

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