Il rito, Ingmar Bergman, 1969

 



Ritualità dionisiache per la (ri)nascita della tragedia, vesciche di vino, albe e costumi sadomaso, maschere grottesche ed enormi falli di legno, orgiastiche funzioni bacchiche prima del sesso, non consumato, invisibile eppure presente nella sua negazione - Testimonianze e confessioni di piaceri femminili, una mano nella vagina e l’altra sul clitoride e poi tutto diventa possibile, stanze e interrogatori, giudici kafkiani dalla copiosa sudorazione, la violenza come forma di eccitazione, gli schiaffi e le lacrime perché non c’è posto per i baci nell’esplosione degli istinti - Personalità che si travestono e si sdoppiano e corrono sul limite tra realtà e finzione, labili confini in cui l’altro diventa sé stesso e viceversa senza fratture se non quelle della psiche, scandagliata, scossa, fremente e terrorizzata - Confessioni e accuse, ebbrezze alcoliche a scardinare il proprio ego, segmenti narrativi come fossero scene teatrali, ambienti spogli, successioni di primi piani su attori feticcio, i visi come luoghi deputati di una messinscena dell’anima e dei suoi misteri, dettagli di oggetti, un’illuminazione che risalta le figure umane, Ingrid Thulin sdraiata su una poltrona, con i piedi in vista e il suo corpo che diventa un territorio di intrepidi piaceri provocanti, isterie nervose e clownesche rivelazioni, quando le parole non arrivano a destinazione e le risate e le lacrime sono manifestazioni della stessa irraggiungibile femminea natura. 

Cinema essenziale, scarno, verboso, dove Bergman scruta fra i fantasmi e i demoni dell’inconscio, con un estremismo provocatorio e splendidamente impetuoso anche se tenuto sempre sotto controllo dalla rigida cornice delle inquadrature, un atto di svelamento del panico sensuale che promette e precede ogni creazione, oltre le debolezze umane, nello spazio sconosciuto che trasfigura i sensi in gioia e dolore, per raggiungere la morte impavida di ogni pudico e inutile giudizio di morali bigotte e stantie.  


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