The Other Side of the Wind, Orson Welles, 2018
Gli anni settanta secondo Orson Welles, in una pellicola che ne racchiude un’altra, in un’opera dalla lunghissima gestazione, causata dai tagli ai finanziamenti e dalla morte dello stesso Welles. Un film in cui la vecchia generazione di registi, O.W. (dietro la macchina da presa) e un meraviglioso e sardonico John Houston, che interpreta l’altro regista J.J Hannaford, sempre con un bicchiere di whisky e un sigaro in mano, si incontra con i giovani protagonisti della New Hollywood, come Peter Bogdanovich, Dennis Hopper e Paul Mazurski.
The Other Side of the Wind è il film nel film, quello che ha girato J.J Hannaford e che viene mostrato a spezzoni, perché ci sono cortocircuiti elettrici e problemi e lo stesso regista lo guarda come di nascosto, in disparte e il film è una sorta di Zabriskie Point, con i due protagonisti quasi sempre nudi, la sublime e scura epidermide di Oja Kodar, in scenari lisergici, fra colori e stilizzazioni geometriche. Oltre questa messinscena psichedelica c’è il continuo susseguirsi di dialoghi, battute, incontri, scambi verbali, in un ritmo filmico sincopato e veloce come la musica jazz che risuona sempre in sottofondo. Welles usa il primo piano per catturare i volti degli attori, facendolo diventare la cifra stilistica del film, il bianco e nero trasfigura i visi e l’angolazione delle luci dona loro ombre tragiche e rughe profonde e scintilli improvvisi nelle iridi degli occhi. Welles cattura, a modo suo, nella costante rielaborazione finzionale di materiale che appare come quello di un documentario, lo spirito di un’epoca, però dal punto di vista di chi non ne è stato partecipe (per età e forse pensiero) ma ci si è, in un modo o nell’altro, ritrovato nel mezzo. A tratti grottesco, irriverente, sofisticato, grezzo, allucinato. Fra castrazioni simboliche e profili di enormi membri in erezione. Sul confine del tempo, oltre di esso. Film perduti e infinite possibilità creative ritrovate.
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